Perché leggere “La piramide del caffè” di Nicola Lecca
Quando si legge per la prima volta uno scrittore e se ne rimane affascinati, la speranza è che quello stesso piacere lo si proverà anche leggendo altri suoi libri. Mi chiedevo, dunque, se ne La piramide del caffè di Nicola Lecca avrei ritrovato lo stesso incanto con cui il suo Hotel Borg mi aveva conquistato. Ebbene, non sono rimasta delusa, anzi.
Protagonista del nuovo romanzo dell’autore sardo è Imi, un ragazzo ungherese, cresciuto in un orfanotrofio, che decide di tentare la fortuna a Londra. Qui scoprirà un mondo nuovo che abbaglia con le sue luci e che solo con il tempo svela le sue non poche ombre. Ci vorrebbe un tecnico per stabilire se La piramide del caffè possa o meno definirsi un romanzo di formazione, mentre è alla portata di tutti identificare quest’opera come una favola moderna. La scrittura, infatti, è fresca (ma è evidente che a sorreggerla vi è grande capacità tecnica) e agevole la comprensione della morale, racchiusa nella stessa storia e non bisognosa del pedante intervento del narratore-pedagogo per essere spiegata al lettore.
E qual è, dunque, l’insegnamento che dobbiamo trarne? Sicuramente che la felicità, tante volte, è davanti ai nostri occhi e non ce ne rendiamo conto. Una verità che in tanti professiamo ma che, in concreto, nel nostro quotidiano, scordiamo spesso e volentieri. Alcuni di noi riescono per dono naturale a individuare ciò che già possiedono e che può renderli felici; tanti altri, invece, hanno bisogno di cercarla altrove prima di trovarla “a casa”, hanno bisogno di attraversare privazioni e sofferenze, hanno bisogno di qualcuno – come Nicola Lecca – che si premuri di spiegare loro il segreto della felicità. «[…] forse, la felicità non dipende tanto da quel che si possiede: ma dal sapersi rassegnare a ciò che non si ha.», ipotizza Berta (una delle istitutrici che si prendono cura dei bimbi dell’orfanotrofio in cui Imi è cresciuto) .. e noi con lei. Ma una cosa, grazie a questo libro, ora ci appare certa: «[…] i desideri sono ossigeno per il futuro, ma è il presente l’unico istante in cui è possibile essere felici per davvero. Rimpiangere quel che è stato o preoccuparsi di ciò che ancora non è accaduto è faticoso per l’anima: la sfinisce.»
Ma la felicità non è l’unico tema sviluppato nel romanzo. Come si può intuire dalla trama, infatti, tanto si dice anche sull’apparenza, sulla gentilezza di facciata e sulle insidie della comunicazione, quegli strumenti con cui gli astuti – da sempre, ma oggi più che mai … e non certo solo a Londra – raggirano gli ingenui. E chi può dire di non esser mai stato ingenuo? Quanti di noi, ad esempio, si sono soffermati a pensare, almeno una volta, « che il televoto, in fondo, sia una tassa per gli idioti» e «che sia assurdo pagare per esprimere la propria opinione»? E quanti di noi possono dire di non aver mai fatto ricorso, nel loro piccolo, a queste astuzie (o almeno di averci provato) per ottenere qualcosa da un’anima più innocente di noi, fosse anche il fratellino minore?
Con la finezza che contraddistingue il suo stile e il suo modo di essere, Lecca non risparmia qualche venatura di elegante sarcasmo: «Barnabás è bravo a manipolare le persone. Riesce a farlo quasi sempre. Lo fa con i bambini, lo fa con Ada neni e lo fa anche con tutte le altre istitutrici. Da grande sarà un seduttore o un politico: e di sicuro renderà infelice un sacco di gente.» E non mancano punzecchiate rivolte al mondo dell’editoria («Da quando tuo padre è morto stai pubblicando soltanto vaccate: per fare soldi. Libri senza futuro: e, fra l’altro, con un presente molto limitato. Libri che saranno spazzati via al primo fil di vento. Libri alla moda, passeggeri: come tutte le tendenze. E non pietre miliari della letteratura. Punti fermi. Destinati all’eternità.») e agli “scrittori da salotto” («[…] lei ama stare nell’ombra. Gli altri scrittori appaiono di continuo sulla stampa: esperti di tutto e di niente, a commentare con la medesima autorevolezza un’autobomba esplosa in centro, i vincitori degli Oscar e un’improvvisa scossa di terremoto registrata nell’isola di Jersey.»).
Nella prefazione a La cella di Gaudì, Marcello Fois fa notare che «Troppi scrittori hanno scordato che il loro mestiere consiste non tanto nel ricercare qualcosa di nuovo quanto di provare a raccontare in modo nuovo quello che sappiamo da sempre.» Ecco, Nicola Lecca questo non l’ha scordato e, a modo suo, ci ricorda un grave problema di cui siamo consapevoli, ma di cui ancora siamo lontani dal liberarci: viviamo sotto il giogo del consumo sfrenato e stiamo perdendo sempre più di vista ciò che più conta, compresi il valore delle piccole cose e l’emozione che può regalare la semplicità, se solo la si sa apprezzare: «[…] questo è un Paese di gente che si indebita fino al collo perché non riesce ad accontentarsi di ciò che ha. Sembra che qui per sentirsi vivi sia necessario consumare, spendere e comprare in continuazione. Insomma: costruirsi una felicità instabile basata sul possesso. In una società del genere al primo posto si mette il lavoro, si lavora da matti: nove, dieci e anche undici ore al giorno. E quando i dirigenti offrono lo straordinario lo si accetta sempre e comunque. Lo straordinario diventa ossigeno per chi ha comprato senza limiti, e si è indebitato fino all’inaridimento più totale. Fino a perdere di vista la vera ragione dell’esistenza.»
In questo romanzo si parla anche molto di pregiudizi. Pregiudizi verso chiunque sia fuori dagli “standard” di un dato luogo per una qualunque ragione: razza, religione, orientamento sessuale, usi e costumi, abilità psicofisiche…
Ma si parla anche tanto di un valore che, fortunatamente, per tanti – compreso chi scrive – è l’ancora a cui possiamo – anzi dobbiamo – aggrapparci per non affondare: la solidarietà.
La storia che Nicola Lecca ci racconta – e che nasce da una sua esperienza reale – ci ricorda quanto sia importante e prezioso, tanto per noi quanto per il nostro prossimo, uscire dagli steccati del nostro egoismo, smettere di pensare che ciò che non ci tocca direttamente non ci riguardi né mai ci riguarderà, farci carico dei problemi altrui per provare, insieme, a risolverli.
La piramide del caffè è un sorriso dolceamaro, come solo la malinconia sa essere. Però, non lasciamoci ingannare: il retrogusto che queste pagine così belle lasciano nel lettore è lo stesso dello zucchero, dolce ed energizzante: «[…] la speranza è forte: una droga innocua e potente capace di vincere sempre e comunque su tutto. Anche sulla disperazione.»
E, dopo questa pillola di sano ottimismo, non aggiungo altro perché – come ci insegna Nicola Lecca – tacere è il giusto commento per un’opera che vale: «- […] chi ha talento crea silenzio nella bocca degli altri!»