Perché leggere “Quasi 17” di Igor Lampis
Quasi 17, il nuovo libro di Igor Lampis, è stato presentato lo scorso 4 luglio a Cagliari, nell’ambito della rassegna “Pazzi per i libri, l’estate culturale dell’ex manicomio”, organizzata dall’Asarp (Associazione sarda per l’attuazione della riforma psichiatrica), dalla redazione del giornale online Ondecorte e dalla rivista letteraria plurilinguistica Coloris de Limbas. Per l’occasione l’autore ha avuto al suo fianco Roberto Loddo e Angelo Pili, con la speciale partecipazione di Gisella Trincas, presidente dell’Asarp.
Igor Lampis ha 36 anni ma ha già dato alle stampe altre quattro pubblicazioni prima di questa, che è la sua prima raccolta di racconti. Racconti di che genere letterario? La casa editrice 0111 Edizioni (la stessa dell’intenso A pochi passi da te di Roberto Pellico) li ha etichettati come horror ma – come ha spiegato lo stesso autore durante la presentazione – questa classificazione mal si addice ai suoi brani, anzi, per alcuni risulta totalmente fuori luogo. E ancor più improprio sarebbe parlare di noir. Dunque, è possibile etichettare questi racconti? Ni!
Roberto Loddo ha definito Igor Lampis “l’Edgar Allan Poe di Pabillonis”, ma personalmente trovo più appropriato il paragone con Richard Matheson, recentemente scomparso: entrambi, infatti, hanno dato vita ad un genere letterario ibrido, che ha elementi del thriller, dell’horror e del fantascientifico, in cui la componente dominante è l’angoscia (una caratteristica che emerge chiaramente già ne Lo spirito del mio tempo, il romanzo con cui questo giovane autore ha esordito nel 2010). Tant’è che, avanzando in queste pagine, più di una volta lo stato d’animo del lettore si avvicina a quello di Rino Rego, protagonista del brano Il giorno della mia morte: «[…] l’angoscia si è fatta talmente solida da sembrargli un ragno nero che gli cresce nel petto e infila le sue zampe pelose e insidiose come siringhe avvelenate sul suo costato.»
Altra caratteristica che già questa citazione evidenzia è l’uso di una scrittura concreta e “visiva”: facile per il lettore immaginare le scene narrate come fotogrammi di una pellicola cinematografica, magari accompagnati da un cupo sottofondo di chitarra, come quello che ha seguito Igor Lampis durante la lettura di alcuni inquietanti brani di Quasi 17.
A lui e al suo racconto Ucronìa Unione Eterna devo, inoltre, un ringraziamento per avermi fatto conoscere (con deplorevole ritardo) l’esistenza e il significato dell’aggettivo “ucronico”. Ma non è certo per il genere letterario che questo brano attira più degli altri l’attenzione dei lettori. Senza scendere nei dettagli per non rovinarvi l’effetto sorpresa, vi anticipo solo che vi si racconta una diversa possibile origine della religione cristiana e che, per tale motivo, già al momento della sua prima pubblicazione su un sito internet, ha sollevato le ire di tanti credenti. A raccontarlo è stato lo stesso autore che, però, ha ribadito che la sua intenzione non era quella di offendere nessuno. In tutta franchezza, dopo aver letto queste pagine, non vedo come si possa dubitare delle sue oneste intenzioni: è chiaro che non si tratta di una mera provocazione, per cui non c’è, a mio parere, alcun motivo valido per cui noi cristiani dovremmo offenderci. Tuttavia, non credo invece che – come ha sostenuto Igor Lampis – si tratti solo di un mero esercizio di stile, ossia scrivere un racconto di genere ucronico: nel suo racconto vi ho trovato la stessa legittimabile visione delle cose, la stessa legittimabile voglia di porre in dubbio verità di fede espressa da José Saramago (ateo ma profondo conoscitore delle Sacre Scritture) ne Il vangelo secondo Gesù Cristo. Ai cristiani poi la libertà di porsi o meno dei dubbi, per ritrovarsi in seguito con una fede più salda, o, al contrario, di rifiutare ottusamente qualunque argomentazione contraria al proprio credo.
Così come Ucronìa Unione Eterna, anche le altre storie più “forti” di Quasi 17 non sono state evidentemente scritte per il solo gusto di provocare e spaventare i lettori.
Innanzitutto, i protagonisti di molti racconti sono sì al di là del bene e del male (una lettrice li ha appropriatamente definiti “antieroi”), ma hanno comunque una loro morale, seppure lontana da quella dominante (penso soprattutto al racconto Caramelle per un vecchio).
Non solo: più di una volta fa capolino in queste pagine, così come già ne Lo spirito del mio tempo, una notevole sensibilità verso i piccoli e i grandi drammi che affliggono, talvolta anche a loro insaputa, gli esseri umani. Come ha efficacemente affermato Roberto Loddo, infatti, «Igor ha utilizzato gli occhiali del cinismo per leggere l’individualismo e la realtà in generale. E può esser un modo per superarla questa realtà negativa.» Tale finalità positiva, del resto, l’ha evidenziata lo stesso autore, rispondendo ad un lettore che gli chiedeva se ci sia speranza di salvarci dal cinismo e dall’individualismo: «Queste storie non sono pessimiste, possono servire a farci capire che la direzione che stiamo prendendo è sbagliata.» Anche perché, sostiene, «si inizia con le piccole cose e poi si cambia il mondo!»
Come non vedere, ad esempio, un ammonimento rivolto ai giovani nei pensieri di Antonio, l’anziano personaggio di Caramelle per un vecchio: «[…] lui stesso in passato non si è mai interessato ai vecchi. Forse ora se potesse tornare indietro cambierebbe quell’atteggiamento nella speranza di avere, oggi, un po’ di considerazione da parte dei giovani.» O come non leggere in questo passaggio di Quel lieve dolore al petto una critica ad una delle tante ipocrisie che dilagano nella nostra società cattolica:
«Non aveva mai creduto ai santi.
“Tutte stronzate per far fessa la gente” ringhiava.
Però gli faceva comodo che per santificarli non si lavorasse.»
Quindi sarebbe davvero riduttivo leggere questi racconti limitandosi ad apprezzarne la notevole tecnica narrativa (che spesso regala bei finali ad effetto), senza annotarsi qualche buon suggerimento, come questo tratto da Forse dovrei partire:
«Voglio passare una giornata speciale con le persone a cui voglio bene. Con quelle che mi hanno dato tutto senza avere nessuna certezza del fatto che potessi rendergli qualcosa.»