Perché leggere “Sola andata” di Marcello Fois
di Marcella Onnis
In attesa di ritrovare Marcello Fois con il suo ultimo libro, L’importanza dei luoghi comuni, ho pensato di riassaporare la sua scrittura con Sola andata. Uscito nel 1999 per Edizioni EL, l’anno scorso la casa editrice Il maestrale l’ha riproposto in una “riedizione riveduta e aumentata”, che è poi quella che possiedo ed ho letto.
È la storia, breve ma intensa, di un’amicizia tra tre ragazzini che, a un certo punto, si incrina … e mi fermo qui non solo perché il seguito sta a voi scoprirlo, ma anche perché la trama è solo un mezzo per esplorare temi di ampio respiro.
Leggendo questa presentazione, come del resto la seconda di copertina, è facile, per chi conosce gli scrittori sardi contemporanei, notare somiglianze con un altro romanzo breve made in Sardinia, pubblicato proprio l’anno scorso. Le somiglianze ci sono indubbiamente, ma si fermano all’apparenza: l’altro libro, che non nomino, è sicuramente apprezzabile e non è assolutamente frivolo, ma questo sta, per così dire, su un altro livello. Perlomeno, questo è il mio parere, certamente viziato dal diverso giudizio che do ai due autori: uno apprezzato, l’altro amato anche come intellettuale.
Sul piano linguistico e stilistico il giudizio è assolutamente positivo, Il linguaggio usato è fedele alla “verità dei personaggi”, almeno così pare a me che sono adulta: forse dovremmo chiedere ai giovanissimi se effettivamente si sarebbero espressi così. Lo stile, come nelle altre sue storie ambientate in epoca contemporanea (vedi Dura madre, Ferro recente, Sheol …), è poetico senza troppi arzigogoli. Ma c’è anche una traccia del sobrio lirismo di cui Fois è capace (penso soprattutto a Sempre caro, L’altro mondo e Nel tempo di mezzo). Prende forma nel “coro” che, come nelle tragedie greche, dà voce ad un sentire collettivo, in questo caso quello dei preadolescenti. E anche la presenza del “coro” è una delle (belle) sfumature espressive di Fois, presente, ad esempio, in Memoria del vuoto e Stirpe, che, però, a mio parere un po’ eccedono con il delirio lirico.
Facile intuire che i temi trattati ruotano intorno al rapporto tra “grandi” e “piccoli”, ma non scontato è il modo in cui vengono sviluppati. Si parla non solo di amicizia e lealtà ma anche, con delicatezza, di morte, dolore e malattia. Interessante, inoltre, il fatto che, forse perché a scrivere è un uomo, si parli più di paternità che di maternità («[…] i padri le cose che riguardano i figli le sanno prima.»; «[…] i padri sono felici quando i figli capiscono certe cose.»). Quest’attenzione particolare per la figura paterna – già rintracciabile nel precedente romanzo Nel tempo di mezzo – ha il grande pregio di stimolare la riflessione nelle lettrici femminili, per la maggior parte convinte che “il padre è importante, certo, ma la mamma è sempre la mamma”.
Se le donne devono, forse, riequilibrare il peso che per loro padre e madre hanno nella vita dei figli, tutti, però, a prescindere dal sesso, potremmo aver bisogno di rivedere la nostra immagine della “tenera età”. È comprensibile che a distanza di tempo non ricordiamo più certe sensazioni, come è normale non riuscire con facilità a interpretare la realtà dal punto di vista dei bambini e dei ragazzi, ma sarebbe imperdonabile credere di conoscerla meglio di loro. Per questo è fondamentale starli ad ascoltare quando ci raccontano – magari attraverso un’adulta mano amica – il loro mondo, le loro ansie, le loro convinzioni:
«Chi lo dice che l’infanzia è la stagione felice?
Bisogna continuamente guardarsi alle spalle. Difendersi con le unghie e con i denti. Perché l’infanzia non esiste, non ha senso. È tutto un provare e fare cilecca. È tutto un dipendere…»
«[…] a che cosa servirà mai essere bambini se tutto quello che fai non lo puoi più fare quando diventi grande?»
Certo, Marcello Fois in queste pagine dimostra qualcosa anche ai più piccoli, per esempio che gli adulti possono dar loro insegnamenti che un giorno – magari vicino, come nel caso di uno dei tre protagonisti del libro – ringrazieranno di aver ricevuto («[…] non c’è soddisfazione migliore di una cosa che non ti è stata regalata.»). Ma più spesso parla di cose che sì i bambini devono capire, ma i grandi devono ricordare: «In quel momento Volpe capì cose importanti, cose che gli erano rimaste dentro per tanto tempo: che amare la gente è difficile, che è più facile odiare; che è più comodo mettersi a sedere e aspettare che qualcuno sbagli piuttosto che aiutarlo a non sbagliare. E forse capì quanto fosse importante sentirsi amati.»
Questi occhi acerbi ai quali lo scrittore dà voce ci tolgono le maschere e ci spogliano delle nostre ridicole e inutili corazze. Rimasti nudi, appariamo per quello che siamo: fragili («Gli adulti […] Avevano un aspetto talmente stanco che veniva voglia di dargli una mano. Di chiedergli che cosa erano cresciuti a fare…»; «E ci colpiva la debolezza degli adulti più che la loro forza.»), inetti («Se non siete riusciti a farlo voi un mondo migliore, dovremmo riuscirci noi?”») e meschini («Anche la verità… non sei mai sicuro della verità. E a dirla tutta non sembra uno sport molto praticato. Chi vuole la verità?»; «Com’è possibile stare a menarsela con la verità se gira e rigira ci vogliono soldi, pettorali e cattiveria?»).
Sola andata è un breve romanzo di formazione … ma tende una mano, per aiutarli a crescere, non ai ragazzi: agli adulti.
«- Com’è essere grandi? – chiese all’improvviso.
[…]
– È come partire, – disse don Sazzini ancora senza voltarsi, – con un biglietto di sola andata in tasca. È come iniziare un viaggio, che fa male e rende felici allo stesso tempo. Un viaggio che sembra non cominciare mai e quando ci si rende conto che si è partiti è già tempo di scendere dal treno…»