Percival Everett: che tipo!
Eclettico negli stili letterari come nei linguaggi artistici con cui si esprime, Percival Everett è un universo da esplorare, anche a livello umano. Utile guida in questa esplorazione è stato, all’ultimo Festival della letteratura di Mantova, Fabio Geda.
di Marcella Onnis
Festivaletteratura 2015 – Mantova – Venerdì 11 settembre 2015
«Chi ha letto almeno tre libri di Percival Everett sa quale ingrato compito mi spetta, perché è inclassificabile. È un universo, una specie di costellazione di stili, di spunti di riflessione…». Così esordisce Fabio Geda nel presentare il collega statunitense al XIX Festival della letteratura di Mantova. Everett è davvero un universo: a chi già non lo sapesse, svela infatti Geda che è un artista poliedrico, che spazia dalla prosa alla poesia passando per la saggistica come dalla pittura (dipinge quadri astratti) alla musica (suona bene la chitarra, come attestato dal video che vi proponiamo sotto, segnalato dallo stesso Geda). Anzi, secondo il collega-ammiratore, «il suo approccio alla letteratura è tipicamente jazz».
SCRITTORE … PER ESCLUSIONE – Nel suo passato annovera più visite in Italia e un’esperienza lavorativa in un range di cavalli, di cui – dice Geda – si notano tracce nei suoi romanzi, in particolare in “Ferito”. Ma «cosa ha portato quel bambino nato in Georgia tra le braccia della scrittura?» gli domanda lo scrittore italiano e lui pronto risponde «I’ve no idea!». La risata scoppia tra il pubblico anche prima che l’interprete, Marina Astrologo, traduca con “Non ne ho idea”. (Apro una parentesi per precisare che Marina Astrologo è un’Interprete, poiché non si limita a tradurre, ma riproduce con l’intonazione l’intenzione con cui le parole sono state originariamente pronunciate.) Intanto Everett aggiunge: «Vengo da una famiglia dove sono tutti medici e dentisti: l’unica cosa che sapevo per certo è che non volevo diventare medico. Quindi ho fatto studi di filosofia e di logica… e naturalmente sono diventato scrittore». Brillante nella scrittura come nell’oratoria.
PIÙ ROMANZI, UNA SOLA STORIA – Ricollegandosi alle premesse iniziali, Geda gli pone la seconda domanda: «I suoi romanzi sono estremamente diversi tra loro. Ogni volta mi chiedo cos’è che fa sì che si sieda e cominci a scrivere una storia. Qual è la scintilla? Immagino ogni romanzo abbia la sua, ma qual è l’urgenza?» «Thank you for the easy question!» risponde divertito e divertente. (Bello capire subito almeno una parte del discorso e poter ridere/sorridere/annuire/stupirsi in tempo reale, senza aspettare la traduzione, in questo caso “Grazie per la domanda facile!”) Anche stavolta, però, arriva la parte seria della risposta: «Se avessi quindici figli – e non li ho -, non li vestirei alla stessa maniera né li chiamerei allo stesso modo. Ogni storia deve per forza avere la vita sua e i panni suoi. Aspetto sia la storia stessa a parlarmi». (E in questo ha un punto in comune con Maurizio De Giovanni, ma vedrete nei prossimi articoli che di connessioni tra autori e incontri ne sono venute fuori pure altre.)
«L’impressione è che ogni romanzo componga la stessa storia: è così?» gli chiede Fabio Geda. L’interessato conferma: «È indubbiamente così, quantomeno per il modo in cui io vedo il mio lavoro. Non so precisamente quanti sono [i miei romanzi, ndr]. Sicuramente troppi, ma è così: conversano l’uno con l’altro. Almeno, io la vedo così. Ho anche un romanzo in progress che non sarà mai pubblicato: lo sto scrivendo e i miei amici hanno precise indicazioni per cui, quando non ci sarò più, dovrà essere distrutto». «Bah…» commenta Geda, scettico sulla possibilità che queste indicazioni siano rispettate. E stavolta è lui a suscitare l’ilarità all’ombra del portico del cortile d’onore di Palazzo ducale.
LA POTENZA DELLA LINGUA – Rispondendo poi a una domanda scherzosamente provocatoria del collega, Everett afferma: «Non mi sento insultato se mi dai dello scrittore. Non credo di essere un raccontastorie per natura: ciò che muove il mio interesse è vedere come funziona la lingua». «Ma allora cos’è il linguaggio per te? Un grimaldello che ti serve per scardinare la realtà o una zattera di salvataggio?» domanda Geda, i cui interventi si fanno via via più fluidi e calzanti. «Non dico niente di nuovo quando dico che il linguaggio è ciò che ci rende umani e – cosa ironica – la lingua non può esistere senza di noi. Ora, io non penso di avere con il linguaggio un rapporto molto alto: è un rapporto terra terra, è un’esperienza quotidiana. Quello che veramente mi affascina sono i suoni, i segni che usiamo per scriverli». Un’altra risposta che concorre a tratteggiare il ritratto di un artista di grande talento, ma schivo e con i piedi ben piantati per terra.
OGNI ARTE È UN LINGUAGGIO – Geda ricollega questo discorso alla passione di Everett per altre arti e l’interessato spiega così la sua filosofia: «Non vedo una differenza nel linguaggio delle arti visive, in quello della musica e delle lettere: ogni linguaggio è un commento di ciò che viviamo e ognuno comunica nella stessa maniera. Ed esigono tutti la nostra attenzione». «Mai provato a contaminarli?» domanda incuriosito Geda, non si sa se più in veste di scrittore o di lettore. «Uhm…» risponde Everett e il collega esclama sorpreso e divertito: «Mettere in difficoltà Percival Everett mi riempie di orgoglio. È uno dei giorni più belli della mia vita!» Però, neppure stavolta l’artista statunitense si trincera dietro una non-risposta: «Non ho mai pensato di scrivere un libretto d’opera o semplicemente un testo di una canzone, ma musica ne scrivo. Quando scrivo musica, però, scrivo musica: è quello il mio linguaggio. Voglio farvi un esempio: ci sono due opere d’arte non letterarie che mi hanno molto influenzato sin da giovanissimo. La prima è la versione di “My favourite things” di John Coltrane: lui occupa questo motivetto ben noto e lo stravolge, esprime cose che chi ha scritto la canzone originaria non aveva assolutamente intenzione di dire. Le parole non possono dirlo». La seconda opera d’arte, racconta, è un quadro di Jackson Pollock, molto lungo e molto stretto. Da ragazzino, suo padre lo portò al museo in cui è esposto (chiedo scusa, ma non ricordo quale) e quando si ritrovò davanti quest’opera, non riuscì più a muoversi. Suo padre – «che è sempre stato più intelligente di me» precisa – capì e lo lasciò solo. «Nessuno di noi entra mai in un’opera d’arte tutta insieme: ci si entra in un punto per volta. Quest’esperienza non può essere espressa con parole. Ma queste due esperienze, secondo me, hanno contribuito a fare di me uno scrittore migliore» conclude. E Geda opportunamente commenta: «Ogni musica e quadro può raccontare una storia, se uno ha occhi».
LA FUNZIONE POLITICA DELLA LETTERATURA – Il dialogo tra i due, però, non si limita a disquisire sull’arte, sulle sue declinazioni e interpretazioni. Con la successiva domanda vira decisamente verso temi più “terreni”: «“La cura dell’acqua” mi sembra un atto di accusa contro i crimini di guerra del tuo Paese (allude, infatti, alla tortura dell’acqua praticata anche a Guantanamo) e contro l’amministrazione Bush, come pure “Ferito”, scritto dopo l’omicidio di Matthew Shepard. Quanta tensione politica c’è nei libri di Percival Everett?» «“La cura dell’acqua” è certamente un romanzo di protesta. Ero veramente molto arrabbiato per il fatto che il mio paese fosse sceso in guerra in modo illegale, antietico, e per le conseguenze. Io credo che ogni romanzo sia politico: ogni romanzo è una presa di posizione e ogni opera, se non ci fosse un intento politico, non sarebbe vera, veridica». E chiarisce: «Quando mi sveglio, gioco con i miei figli: in quei momenti non penso granché alla politica. Ma quando la sera vado a dormire e penso al loro futuro, altroché se penso alla politica!»
I PREGIUDIZI? DURI A MORIRE La successiva domanda di Geda sta a cavallo tra politica in senso lato e arte. In particolare, chiede se ancora oggi l’editoria si aspetti “romanzi africani” dagli scrittori di origini africane, come fa comprendere attraverso il romanzo “Cancellazione”: «L’America cerca ancora questo tipo di stereotipi?» Everett risponde pronto che «per opere di quel genere c’è ancora un mercato però, per fortuna, il mercato americano si è allargato. Concentriamoci su come le opere, una volta pubblicate, sono trattate. Nei media e tra i recensori troviamo un atteggiamento diverso. Tutto è cambiato, ma bisogna vedere come trattano le opere perché il linguaggio dei recensori cambia le opere». E fa il caso di scrittrici le cui opere sono etichettate come “romanzo intimista” e mai come “grande romanzo americano”, ma se lo stesso tipo di opera viene scritta da un uomo, i critici letterari hanno tutt’altro atteggiamento.
Non c’è dubbio che siamo intrisi di pregiudizi, anche razziali, e Geda, in proposito, richiama alcune affermazioni fatte tempo addietro da Everett («Se un personaggio non viene descritto come nero, noi lo immaginiamo come bianco»), in risposta a chi lo accusava di sottolineare l’appartenenza afroamericana dei suoi personaggi. Lo scrittore statunitense precisa: «Non credo si trattasse di questa domanda. Semplicemente credo stessi esprimendo un dato di fatto: come veniamo letti. Quando scrivo, tutti si aspettano che io scriva di neri. Per me è un problema che non sussiste: nessuno si stupisce che Philip Roth scriva di bianchi. Può esser molto noioso e molto faticoso: un artista deve poter scrivere di personaggi della sua razza e va bene. Se non lo sono, va bene».
PERCIVAL EVERETT È PERCIVAL EVERETT – Passando poi al romanzo “Percival Everett di Virgil Russell”, Geda commenta: «Tutto questo mettere l’accento sull’inadeguatezza di essere padre… Esserlo è difficilissimo. Ora mi dirai “Yes!”» Naturalmente la risposta è «Yes!», per il divertimento di tutti, ma poi serio aggiunge: «Mi pare di imparare qualcosa dai miei figli ogni giorno che passa. Quando scrissi questo romanzo, mio padre era alla fine della vita, ma io non sapevo cos’avevo fra le mani. Per finir quel libro, ho passato due mesi insonni e solo alla fine ho capito che stavo scrivendo una lettera a mio padre. È stato un padre straordinario. Ma ciò che conta in quel libro non è tanto l’inadeguatezza dell’essere padre: è capire chi alla fine scrive questa storia».
L’ultima domanda di Geda riguarda ancora l’ecletticità di Everett, ossia cosa ci sia in ogni forma letteraria in cui scrive che lo porta a sceglierla di volta in volta. Ancora una volta, la risposta è ironica e seria a un tempo: «Dico che io scrivo poesie semplicemente per dimostrare che non so scrivere poesie. E ci riesco benissimo. Diciamo che io scrivo prosa. Non sono così speciale: sono uno che scrive storie. Qualcuno le legge? Bene. Qualcuno le compra? Meglio ancora».
Non è davvero un tipo in gamba Mr Everett?