Pier Paolo De Mejo interpreta Jim Morrison in tournée per l’Italia
“Cerca di essere sempre te stesso, così un giorno potrai dire di essere stato l’unico.” (Jim Morrison)
Negli ultimi giorni del 2010 Roma è stata allietata dal ricordo di due stelle comete che hanno attraversato il firmamento dello spettacolo mondiale ed i cui nomi sono James Douglas Morrison e Alida Valli. È grazie a Pierpaolo De Mejo, “nipotino” dell’interprete del film “Senso” sul risorgimento italiano a Venezia, capolavoro di Luchino Visconti ispirato alla novella di Camillo Boito, e figlio di Carlo e della D.ssa Maria Laura Iadeluca, che si è concretizzato il connubio di tanta arte. Non dimentichiamo che Oscar De Mejo, padre di Carlo e marito di Alida Valli, era cugino diretto di Leonor Fini, la pittrice surrealista degli anni ’40 famosa anche per il suo salotto culturale e i sorprendenti e affascinanti travestimenti. “Morrison Hotel” è lo spettacolo/concerto sulla vita di Jim Morrison, il pilastro della musica ribelle, dove il suo percorso esistenziale folle e visionario si fonde e si amalgama tra la Musica, il Teatro e la Poesia proprio per rendere omaggio al poeta surreale del Rock. Il regista, volto noto della RAI, Edoardo Sylos Labini, cugino della simpaticissima Caterina, che ricordiamo nell’interpretazione di Marcelina, la collaboratrice domestica spagnola della sit-com “Baldini & Simoni”, e in “Don Matteo”, ha saputo evidenziare quelle atmosfere tipiche dell’hard rock e del blues che hanno segnato il ritorno dei The Doors sulla scena mondiale con il loro quinto disco d’oro consecutivo, che poi divenne di platino, proprio con l’albo Morrison Hotel. La scenografia essenziale si sviluppa intorno ai tre elementi dell’orchestra: la tastiera, Fabrizio Vestri, la batteria, Simone Quarantini e la chitarra elettrica, Valerio Cosmai; mentre un tappeto damascato rosso funge da letto di vita, d’incontro e di morte. In questa ora e mezza di Teatro e di ottima musica dal vivo non manca neanche la suspence iniziale che tiene in bilico il pubblico tra il ritornare a casa o attendere l’arrivo del protagonista in teatro, per dare il via allo spettacolo. Ottima trovata registica per dare l’inizio allo spettacolo con un fragoroso applauso che segue la corsa di Pierpaolo De Mejo fin sulla scena. Sia il testo che l’interpretazione di Pierpaolo toccano temi drammaturgici forti e decisivi evidenziati anche dall’ottima mimica dell’attore. Da alcune “confessioni” lette sul suo profilo di Facebook si apprende che Pierpaolo De Mejo adora i movimenti di macchina di Kubrick, i viaggi onirici di Lynch e la genialità di Orson Welles. Poi ancora i film di Chaplin e Keaton, le sfuriate di Jack Nicholson, il carisma di Vittorio Gassman, l’istinto di Marcello Mastroianni e le battute di Woody Allen. Lo sguardo penetrante di Benicio Del Toro e le magistrali interpretazioni di Johnny Depp, Marlon Brando quando grida “Stella!!!”, Al Pacino quando sfiora la perfezione e Totò quando lo fa ridere parlando di cose tristi. Mentre la frase esistenziale la fa risalire all’autore di On the road, il padre della Beat Generation: “Sapevo che a un certo punto di quel viaggio ci sarebbero state ragazze, visioni, tutto; sapevo che a un certo punto di quel viaggio avrei ricevuto la perla.” (Jack Kerouac)
Pierpaolo De Mejo ha studiato regia e sceneggiatura cinematografica all’Università di Roma Tre, dove si è laureato nel 2008 con tesi sul metodo Stanislavskij e sul metodo Alder. Tra i due metodi interpretativi quale preferisci?
– …E nella presentazione dimenticavo la comicità irresistibile e unica di Peter Sellers!… Dunque ho studiato il metodo americano perché mio padre studiò con Stella Adler per 3 anni all’Actor’s Studio di New York sul finire degli anni ’60. E dai suoi racconti l’ho sempre trovato un metodo di lavoro assolutamente affascinante. Stanislavskij ce lo dice chiaramente ma indirettamente: il metodo non esiste, o meglio ne esiste uno diverso per ognuno di noi, come a voler dire, cerchiamo di trovare il buono in tutte le esperienze che facciamo, inteso come cercare ciò che fa per noi e che può servirci a crescere in ogni cosa. Credo che il merito di Stella Adler sia stato quello di prendere il Metodo e tradurlo nella pratica con facilità e allo stesso tempo con precisione accurata. Facilità perché bisogna mettersi a nudo sul palco in maniera diretta, immediata e in continuazione, provare, interrogarsi e riprovare, farsi anche insultare dall’insegnante se necessario (basta che l’insulto non sia gratuito ma piuttosto utile a scatenare una reazione!) e precisione perché assolutamente nulla viene lasciato al caso. Cito solo una frase che ho ritrovato nel bellissimo libro che raccoglie cicli di lezioni delle sue classi all’Actor’s Studio: “La verità in scena è la verità nelle circostanze”
Appartenere ad una famiglia di artisti vuol dire, secondo te, avere nel gene quella sensibilità artistico-intuitiva che facilita la comprensione e l’interpretazione del personaggio?
È probabile… com’è probabile il contrario! Dipende sempre e solo da come si cresce. Io sono stato lasciato molto libero, ma allo stesso tempo ben incanalato. Mi è stata data, insomma, l’opportunità di crearmi una coscienza autonoma e critica. Ho avuto la fortuna di vedere molto Cinema e Teatro fin da piccolissimo, e questo ha sicuramente influito nelle mie scelte. Non ho mai navigato nell’oro e i miei genitori mi hanno sempre insegnato ad ottenere col sudore tutto ciò di cui ho bisogno. Mia madre è un esempio di lavoratrice che pur sudando sette camicie, lotta per la sua famiglia e per le persone a cui tiene e cerca di non scendere mai a compromessi. Mio padre è la parte irrazionale e creativa che mi ha fatto innamorare del mestiere.
A 18 anni hai esordito accanto a Carlo De Mejo, tuo padre, nel “Macbeth” di William Shakespeare. Quali sensazioni ricordi?
Era una piccola cosa, fatta per beneficenza, ma fui molto contento di lavorare per la prima volta con mio padre. Lo presi come una sorta di laboratorio e primo studio sul testo di Shakespeare. Fu utile più che altro per il confronto.
Nel 2007 hai fondato assieme ad altri artisti una compagnia teatrale che porta il nome di tua nonna Alida Valli e nel 2008 hai realizzato “Come diventai Alida Valli” un film documentario sull’attrice che venne presentato nello stesso anno al Festival Internazionale del Cinema di Roma. Quali motivazioni ti hanno indotto a scrivere la sceneggiatura di una vita familiare a te così prossima?
I motivi sono molti e connessi tra loro. Ad un tratto ho avuto paura che la figura di mia nonna, così riservata e poco appariscente nel corso della sua esistenza, andasse gradualmente sparendo nell’immaginario collettivo. Viviamo ormai in un mondo dove regna la politica del successo facile e fugace. Il messaggio televisivo è chiaro: chiunque può arrivare alla notorietà, non servono chissà quali capacità, basta sapersi vendere. In questo panorama degradante, è facile che tutto si mischi creando un enorme caos, in cui le persone che hanno avuto o hanno davvero importanza e valore, vengano ignorate, dimenticate in favore di nuovi e alquanto grotteschi personaggi (o “nuovi mostri” come suggerisce Striscia la Notizia!). Un altro motivo, forse il più importante, nasce dal bisogno di raccontare il mio affetto verso una persona così importante nella mia crescita, una persona che avrei voluto conoscere sempre di più. Insomma, un viaggio alla riscoperta ed alla scoperta delle mie origini.
James Douglas “Jim” Morrison è nato il 7 dicembre 1943 a Melbourne, Florida. Jim Morrison,l’uomo lucertola, è morto il 3 luglio 1971 a Parigi, Francia.
Giuseppe Lorin