Quelli erano giorni. Il Sessantotto di un outsider

di Diego Giachetti

Il titolo e il sottotitolo del bel libro di Angelo Gualtieri, Quando il cielo era con noi. Un outsider del Sessantotto (Infinito edizioni, 2024), riassumono le modalità interpretative scelte per dare respiro allo spirito del tempo e la collocazione da outsider del protagonista rispetto al tema narrato. Nato nel 1948 era destinato ad avere vent’anni nel 1968, nel pieno dei movimenti in Italia e non solo. Tuttavia egli era partito da una condizione non favorevole, da una situazione marginale che recupera con fatica assumendo il ruolo di outsider del Sessantotto bolognese. Originario di un comune dell’Appennino modenese, nato e cresciuto in un contesto di povertà e isolamento, l’autobiografia è rappresentativa del percorso di chi venne dal “margine” per andare verso il centro cittadino del Sessantotto.

Outsider

La sua è la storia del progressivo avvicinamento, mosso da ragioni di frequenza delle scuole medie inferiori e superiori. A scuola, fin dalle elementari, scopre che ha attitudine per lo studio. Aiutato e sorretto dai sacrifici della famiglia approda alle medie che supera brillantemente per poi iscriversi a ragioneria a Sassuolo. Sostiene lo sforzo familiare lavorando nei mesi estivi. Soffre per le discriminazioni di classe subite, per essere considerato e trattato come “quello che viene dalla montagna”, prende consapevolezza, assieme alla canzone di Gino Santercole, che quel “vecchio pazzo mondo” andasse rivoltato. Attraverso la narrazione dell’esperienza di uno studente dell’Italia più disagiata, dà voce ai senza storia, a quella parte di giovani trascinati nel vento del Sessantotto, alle sensazioni e agli umori che ricavano per poi riversarli nella famiglia, nel paese d’origine quando rientrano a casa.

Un’esperienza la sua che lo accomuna a tante altre e altri provenienti dalla provincia, composta da piccole comunità comunali e ci ricorda quanto sia necessario, malgrado la molteplicità di studi sull’evento Sessantotto, ricostruire anche la partecipazione di chi veniva da lontano rispetto alle città universitarie. Era una lontananza non solo geografica, anche sociale, economica, una differenziazione interna ai componenti il movimento studentesco. Quelli come l’autore erano generazionalmente coetanei, ma con scarse affinità con i giovani di Milano, Bologna, Torino, Trento, Pisa, solo per citare alcune città epicentro della rivolta studentesca. Ecco perché l’autore stesso ci tiene a precisare che pur avendo vissuto il Sessantotto in prima persona, non è stato un leader, ma un “onesto gregario”, un “appassionato outsider”.

Il cielo era con noi

Gli intensi mesi dell’anno 1968 richiamano l’incipit iniziale della Canzone per te di Sergio Endrigo con la quale si aggiudica il Festival di Sanremo del 1968: “la festa appena cominciata è già finita/ il cielo non è più con noi”. Non ancora consapevole, all’epoca degli accadimenti, che il Sessantotto sarebbe durato poco, ricama la frase per dare titolo al libro: Quando il cielo era con noi. Tutto il libro è un continuo rimando a testi di canzoni coeve, evocative della sua formazione, capaci di descrivere e cogliere stati d’animo e sentimenti. Scopre i Beatles, poi le canzoni di protesta americane, capta la suggestione di Eve of Destruction di Barry McGuire del 1965, testo che esprime le frustrazioni e le paure dei giovani negli anni della guerra fredda, e prosegue citando versi e parole di tanti altri interpreti e cantautori. Costruisce così pagine accattivanti di storia contemporanea, scritte con ironia e sincerità, nelle quali riecheggiano le aspirazioni di una generazione e le canzoni che ne hanno rappresentato la colonna sonora.

Emerge una rivolta generazionale che si esprime negli stili di vita, nella sessualità liberata, nella musica. È la musica a veicolare e marcare le inquietudini giovanili, a dar voce a una protesta esistenziale prima e ancor più che politica. L’autore però mai si è sentito in conflitto coi propri genitori anzi, ha sempre agito e pensato assieme a loro, riconoscente dello sforzo compiuto per permettergli di migliorare la propria condizione. Non a caso il libro è dedicato a loro.

L’autore non ha difficoltà a dire che ha voluto immergersi nei migliori anni della sua vita, anni “formidabili” per dirla con Mario Capanna, che richiama citando una famosa canzone di Vasco Rossi: “mi ricordo chi voleva/ al potere la fantasia. Erano giorni di grandi sogni, sai./ Erano vere anche le utopie” (Stupendo, 1993). Ha sentore della prima occupazione della facoltà di sociologia a Trento nel 1966, del “caso” provocato dall’inchiesta sui giovani pubblicata sul giornalino La Zanzara del liceo Parini di Milano, della morte dello studente Paolo Rossi a Roma. Coglie la dirompente critica alla selezione scolastica di classe fatta dal libro-denuncia Lettera a una professoressa pubblicato nel 1967 da Don Lorenzo Milani. Ma puntualizza che essa era soprattutto imputabile a motivi economici che impedivano a coloro che appartenevano a famiglie disagiate di sostenere finanziariamente gli studi dei figli. Occorreva quindi dare a tutti la possibilità di frequentarla, università compresa. Fatto questo, si poteva parlare di giusta selezione meritocratica. Tuttavia, parlare di merito allora era come nominare la corda in casa dell’impiccato.

A Bologna, iscritto a Economia e commercio, incontra il travolgente Sessantotto, partecipa alle assemblee, non sta in silenzio, prende la parola, senza essere, tiene a precisare un sovversivo, un estremista, si sente parte della componente di matrice cristiana che vuol rinnovare Chiesa e partito cattolico. La presa di parola nelle assemblee rafforza il suo carattere, lo rende consapevole delle sue capacità, lo libera dalla soggezione di essere un montanaro.

Quelli erano giorni

Proprio nel corso di un’assemblea, durante la quale interviene con abilità oratoria, incontra l’amore. Una storia travolgente che racconta in pagine schiette, senza sconti a nessuno, neanche a se stesso. Una relazione entusiasmante, allegra che spazza via tutte le timidezze, ma s’infrange quando lei le propone di convivere senza sposarsi in coppia di fatto, magari anche aperta. Troppo diverse risultano le loro idee di vita e sul futuro prossimo venturo. Così come il Sessantotto li ha uniti, ora coi sui miti e dogmi li divide.

Una storia che lascia un segno indelebile, conservata gelosamente negli anfratti della memoria lontana di lungo periodo ed evocata, in tutta la sua potenza, con la canzone di una diciassettenne gallese, Mary Hopkin, Those Were The Days (1968), scoperta e lanciata da Paul McCartney, interpretata in Italia rispettivamente da Gigliola Cinquetti, Dalida, Sandie Shaw e la stessa Hopkin. I conti col passato tornano tutti in un’evocazione nella quale si mescolano felicità e melanconia: “quelli erano giorni/ sì, erano giorni/al mondo non puoi chiedere di più./ Vivevamo in una bolla d’aria/ che volava sopra la città./ Poi, si sa, col tempo anche le rose/un mattino non fioriscon più/e così andarono le cose/ anche il buon vento non soffiò mai più”.

Avevo vent’anni -scrive- e a Bologna “avvertivo un insolito clima di eccitazione, pensavo di avere il mondo in mano” e la rivolta tra le dita, come avrebbe poi cantato Francesco Guccini in Eskimo nel 1978. Si sente afferrato da quel clima, ne assapora gli umori, si riconosce in molte idealità del movimento.

Il vento dei sentimenti forti si affievolisce e i fatti preludono la fine dell’immagine felice e gioiosa di quell’anno. Richiama il ferimento dello studente pisano Soriano Ceccanti durante una manifestazione ma, soprattutto, dopo l’autunno caldo e il protagonismo operaio, la strage di Piazza Fontana a Milano del 12 dicembre 1969 è per lui la fine del Sessantotto. È tempo quindi di bilanci. Le luci, scrive, prevalgono sulle ombre. Rendiconto che non vale per il suo seguito, gli anni seguenti, afferma si vestono “non solo di nero, ma anche di rosso fuoco”, prendono la via di Una storia sbagliata (Fabrizio De André, 1980).

La sua vicenda non collima del tutto coi cliché paradigmatici-interpretativi dell’evento, tuttavia è simile a quella di tanti giovani che volevano cambiare il mondo o sognavano di fare la rivoluzione, senza riuscirci. Personalmente, conclude, “resta il ricordo di una stagione esaltante, unito al rimpianto per ciò che è stato e che, invece, avrebbe potuto o dovuto essere”. Confessa che ha sempre amato crogiolarsi coi ricordi. Difatti gli è stato rimproverato benevolmente di coltivare la nostalgia, questa canaglia, per dirla con Albano e Romina Pawer (Nostalgia canaglia, 1987)

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