Resoconto dell’incontro sulla donazione di organi a Sanluri
Venerdì scorso si è svolta a Sanluri un’assemblea pubblica organizzata dalla Prometeo Aitf Onlus per informare sui trapianti e sensibilizzare sulla donazione degli organi. A far gli onori di casa è stato Luigi Pilloni, dirigente della Prometeo e consigliere comunale. Sebbene non l’abbia dichiarato, proprio a lui si deve l’iniziativa per l’adesione del Comune di Sanluri al progetto “Una scelta in Comune” del Centro nazionale trapianti (CNT), volto a dare attuazione alle norme che consentono ai comuni di raccogliere, presso l’Ufficio anagrafe, le dichiarazioni di volontà riguardo alla donazione di organi e tessuti in caso di morte di chi rinnova o richiede per la prima volta la carta di identità.
LA SCELTA IN COMUNE – Pilloni ha spiegato che il percorso per attivare questo servizio di registrazione è stato avviato ma che, come accaduto in molti altri comuni, si sono presentati alcuni problemi nel collegamento tra il software dell’Anagrafe comunale e il Sistema informativo trapianti (SIT). Se, però, questi problemi tecnici siano stati risolti o meno non è stato possibile saperlo, visto che il sindaco Alberto Urpi ha evidentemente avuto impegni così pressanti da non poter non solo presenziare all’assemblea ma neppure incaricare di parteciparvi un suo delegato.
L’importante è, comunque, che l’iter sia stato avviato, vista la capacità del progetto “Una scelta in Comune” di dare impulso alle donazioni di organi. Lo dimostra anche il fatto che, secondo i dati del SIT, alla data di ieri, 20 novembre 2016, i sardi che avevano dichiarato il proprio assenso presso le Anagrafi comunali erano 15.668 su 17.765, ossia l’88,2% del totale.
LA DONAZIONE, UN MOMENTO MOLTO DELICATO – Il processo che porta dalla donazione al trapianto comincia, di norma, in una Rianimazione, come quella in cui lavora la dott.ssa Manuela Manno, Coordinatrice locale delle donazioni dell’ospedale “N.S. di Bonaria” di San Gavino. Proprio in questo ospedale, peraltro, è stato salvato in extremis Luigi Pilloni, come lui stesso ha raccontato: da lì è partito il percorso che 2 anni e mezzo fa l’ha portato al trapianto di fegato e alla rinascita.
Nel prendere la parola, la dottoressa Manno ha precisato che il suo ospedale è una realtà relativamente piccola che, però, di recente ha ampliato i suoi servizi, migliorandone la qualità: la Rianimazione è stata potenziata per evitare di dover trasferire i pazienti in analoghi reparti di ospedali più grandi; il centro trasfusionale, il laboratorio di analisi e la radiologia (strutture necessarie per procedere al prelievo e all’esame degli organi del donatore) sono attivi 24 ore su 24 … Come coordinatrice locale delle donazioni – ha spiegato ai presenti – il suo ruolo è fare da referente ogni volta che in ospedale c’è un potenziale donatore. Il compito suo e dei colleghi – ha raccontato – è molto delicato perché non sempre il paziente ha espresso in vita la propria volontà riguardo alla donazione degli organi e bisogna, quindi, consultare i familiari, ma «spesso in famiglia non se n’è parlato» per cui quello che viene espresso non è un vero assenso al prelievo degli organi ma «è una “non negazione”: non ci si oppone, ma non è una vera scelta». Scanso equivoci, comunque, la dott.ssa Manno ha rimarcato che per tante famiglie il fatto che il proprio caro sia divenuto un donatore «dà un senso alla sua morte» e sono molti a dire «Nel mio cuore è ancora vivo».
A rendere particolarmente delicato questo momento concorre anche il fatto che la morte spesso arrivi all’improvviso: i familiari faticano a realizzare cos’è successo e coltivano ancora la speranza di un risveglio dei loro cari. «La cosa più difficile è far capire che il coma permanente è diverso dalla morte encefalica» ha spiegato la dott.ssa Manno: nel secondo caso (presupposto perché il paziente diventi potenziale donatore), il cervello smette di funzionare per cui, anche se il cuore continua a pulsare, la persona è morta. Se il cuore batte ancora, infatti, è «perché è dotato di una certa autonomia e soprattutto perché i rianimatori lo tengono vivo e fanno sì che non smetta di battere»; nel coma permanente, invece, «il cervello non smette del tutto di funzionare: resta un minimo di respirazione e di reazione agli stimoli esterni». La morte encefalica, inoltre, viene decretata da una commissione medica multidisciplinare al termine di 6 ore di osservazione, secondo una procedura rigida definita dalla legge.
I rianimatori si trovano, dunque, non solo a dover comunicare la morte del congiunto ai familiari ed eventualmente spiegare questi dettagli, ma spesso anche a dover chiedere l’assenso al prelievo degli organi. E un “sì” è davvero importante: un solo donatore può salvare con 5-6 suoi organi anche un pari numero di vite umane. Solo in Sardegna, in 25 anni di attività il sistema regionale dei trapianti ha salvato circa mille pazienti, ha rimarcato il presidente della Prometeo Giuseppe Argiolas. Arrivare a questo “sì”, però, è molto più semplice se viene espresso in vita dall’interessato perché – ha affermato la dott.ssa Manno – «non si può mai andare contro la volontà espressa». In proposito, rincuorano i dati registrati quest’anno in Sardegna: secondo quanto riferito dalla Coordinatrice locale delle donazioni, il tasso di opposizione (ossia dei “no”) attualmente si attesta attorno al 16%, un dato molto basso rispetto alla media nazionale e soprattutto all’allarmante 33,3% registrato lo scorso anno (31,6% secondo la cifra aggiornata dal CNT successivamente alla nostra rilevazione).
Rispondendo a una domanda del pubblico, la dott.ssa Manno e il dott. Corrado Tramontin della Cardiochirurgia dell’ospedale “G. Brotzu” di Cagliari hanno, inoltre, chiarito che se la morte encefalica subentra quando il paziente è in casa o comunque in luoghi diversi dall’ospedale, è più difficile che possa diventare donatore: dipende tutto dai tempi che intercorrono tra la morte e l’arrivo dei sanitari del 118 che, con le tecniche di rianimazione, possono far sì che il cuore continui a battere. Difficilmente, comunque, in questi casi sarà possibile donare il cuore, che è un organo particolarmente delicato, ha precisato il chirurgo. A volte, peraltro, subentra prima l’arresto cardiaco e in Sardegna ancora non è possibile prelevare gli organi a cuore fermo.
IL TRAPIANTO DI CUORE E LE SUE PARTICOLARITÀ – Della fase successiva, quella del trapianto, in particolare di cuore, ha parlato il dott. Corrado Tramontin. Questo intervento, ha spiegato, si rende necessario quando lo scompenso cardiaco (ossia il non adeguato apporto di sangue a tutti gli organi) diventa irreversibile e non è risolvibile con altre terapie. Trovare un donatore compatibile per un paziente bisognoso di un nuovo cuore è particolarmente difficile perché – ha precisato – deve esserci compatibilità non solo del gruppo sanguigno ma anche di altezza e peso, spesso poi il donatore deve essere dello stesso sesso. In genere, il donatore ha un’età inferiore ai 55 anni e deve essere deceduto a seguito di determinati tipi di morte encefalica. Inoltre, il cuore deve essere trapiantato entro 5 ore dal prelievo. Anche il paziente deve, però, essere idoneo ad affrontare questo complesso intervento: a valutare la possibilità di inserirlo in lista di attesa è una commissione che include tutte le figure professionale coinvolte in un trapianto (cardiologo, cardiochirurgo, anestesista, psicologo…). Il dott. Tramontin ha, quindi, precisato che gli interventi sono due, così come le équipe coinvolte: una per esaminare e prelevare l’organo, l’altra per esaminare e operare il paziente da trapiantare. Di solito, non si trapiantano pazienti di età superiore ai 65 anni, raramente lo si fa con quelli entro i 70. Oggi, però, esiste la possibilità di impiantare al malato una pompa meccanica per l’assistenza ventricolare, terapia che potrebbe essere disponibile anche in Sardegna entro il prossimo anno, ha annunciato. La qualità di vita è inferiore a quella garantita dal trapianto (anche perché la pompa è alimentata da batterie esterne che occorre portarsi dietro e che hanno una durata di 12 ore), ma dà una sopravvivenza del 90% a un anno dall’impianto, ha chiarito il cardiochirurgo. Generalmente si utilizza su persone con più di 60 anni e il paziente non esce comunque dalla lista trapianti, ma gli si allunga così la vita in attesa del nuovo organo. Nei pazienti con più di 65-70 anni, invece, è la terapia definitiva.
Quanto al decorso post-operatorio, il dott. Tramontin ha spiegato che il paziente viene giornalmente monitorato per verificare che non sia in corso un rigetto e, di norma, lascia l’ospedale dopo un mese dal trapianto di cuore. Come si viva questa esperienza l’ha raccontato Daniela Medda, da quasi tre anni trapiantata di cuore. Come socia della Prometeo, Daniela è anche l’incarnazione della svolta intrapresa dall’associazione sarda e dall’Aitf nazionale, di cui è delegazione regionale, di non assistere più i soli trapiantati di fegato (e, in Sardegna, pancreas) ma tutti, a prescindere dall’organo perché – ha spiegato Argiolas – pur nelle diversità di percorso personale, tutti hanno le stesse esigenze generali. Daniela ha raccontato che per lei “la Chiamata” – quella, cioè, con cui le è stato comunicato la disponibilità di un nuovo cuore – non è stata motivo di gioia: «Non ero contenta di affrontare questo percorso», «non volevo fare il trapianto perché avevo paura, ero – posso dirlo? – cagasotto!» ha confessato con efficace schiettezza. Ad aiutarla ad accettare questo intervento – che, col senno di poi, è contenta di aver fatto – sono stati la psicologa, la dott.ssa Fabrizia Salvago, e i medici del Centro trapianti di cuore: «La famiglia ti fa stare bene mentalmente, ma per stare bene fisicamente hai bisogno dei medici, anche dopo il trapianto». Con questi medici oggi ha un bel rapporto di amicizia, rafforzato dall’attività di volontariato che svolge presso il loro reparto e che, come ha successivamente raccontato Virginia Boi, è preziosissima. Per chi attende di fare l’intervento, soprattutto se al trapianto ci è arrivato per un problema improvviso, «vedere chi ci è già passato dà sicurezza» ha spiegato Daniela. Quanto alla sua esperienza è stata piuttosto tormentata, però, ha aggiunto che «il bello di questo percorso così difficile è saperci ridere sopra: l’importante è ciò che faccio adesso». E tra le cose che fa c’è pure lo sport, incredibile per lei che – malata sin da bambina – non aveva mai potuto concedersi neppure una bella corsa. Per questo, ha spiegato, si sta attivando affinché i medici consiglino ai trapiantati di cuore di fare sport.
ESPERIENZE DI NUOVA VITA – Il percorso di Daniela è stato seguito anche da Virginia Boi, allora in servizio presso il Centro trapianti di cuore della Cardiochirurgia e oggi presso il Centro trapianti di fegato del “Brotzu”, incardinato nella Chirurgia generale. Per via del suo lavoro, sta a stretto contatto con i pazienti da trapiantare e li segue nella preparazione al trapianto, che include una serie di esami, ormai effettuati nel giro di pochissimi giorni. Nel momento in cui arriva la segnalazione della disponibilità di un organo, si verifica se in lista di attesa c’è un paziente compatibile e, in caso positivo, il Centro trapianti lo avvisa. Il contatto con i pazienti in lista avviene periodicamente per accertarsi delle loro condizioni di salute, ma “la Chiamata” si rivela presto diversa dalle altre, anche nel modo in cui viene accolta dall’interessato. Il paziente, ha raccontato Virginia Boi, arriva spesso al trapianto non pienamente consapevole – come hanno confermato i trapiantati presenti – e non meno sconvolti sono i familiari. Di loro, mentre il paziente svolge i necessari esami, si occupano lei e i colleghi del coordinamento trapianti. «Sono fortunata perché stare vicino a queste persone mi gratifica» ha affermato, spiegando che dopo l’intervento questi rapporti umani si mantengono: pazienti e famiglie si mostrano riconoscenti «anche se abbiamo solo fatto il nostro lavoro». Conferma di questo rapporto speciale tra personale medico e paziente è arrivata subito da Giuseppe Argiolas, che ne ha sinteticamente chiarito la ragione: «Ci hanno ridato la vita», non a caso «ogni trapiantato ricorda la sua data di nascita e quella di rinascita».
Quest’ultima per Gianni Fadda è arrivata 13 anni fa con un trapianto di fegato eseguito a Padova, perché allora in Sardegna il Centro trapianti di fegato non era ancora operativo. La prima chiamata per un nuovo organo è andata, purtroppo, a vuoto perché il fegato si è rivelato non compatibile, ma sia in questa occasione che per quella “buona” ha avuto modo di toccare con mano l’efficienza del sistema, che all’occorrenza mobilita, a supporto degli operatori sanitari e del paziente, anche le Forze dell’ordine. Oggi Gianni conduce una vita normale, gioca nella squadra di calcio della Prometeo Sport, come Daniela Medda, e ha avuto la possibilità di veder nascere e crescere due nipotine. Pure Eugenio Saderi è trapiantato di fegato (lui da 8 anni e mezzo) e ugualmente ha dovuto attendere una seconda chiamata per ricevere il nuovo organo. Il suo calvario è cominciato nel 1995 con una malattia che nel 2002 lo ha portato ad aver bisogno di un trapianto: «È stata dura sentire queste parole, per me e per la mia famiglia» ha raccontato emozionato. Nel mese e mezzo trascorso in lista di attesa, per lo più ricoverato, anche per lui e i familiari si è rivelato prezioso il sostegno della psicologa, la dott.ssa Salvago. Saderi ha raccontato di aver avuto, a un certo punto, un crollo: «Non posso aspettare che uno muoia per salvare me» aveva confidato alla dottoressa Salvago, che gli ha risposto che «tutti noi abbiamo un nostro ciclo di vita», invitandolo a non pensare che qualcuno dovesse morire per salvare lui e, piuttosto, a sperare che ci fosse una persona così generosa da donare i suoi organi. E una persona tanto generosa è poi davvero entrata nel suo destino, così che lui oggi è ancora qui e conduce «una vita normalissima, come e meglio di prima». Il suo grazie, quindi, va al personale sanitario ma anche al proprio donatore, cui tutti i trapiantati dedicano la loro nuova vita: «Siamo sempre in due, io non lo dimentico mai» ha affermato Luigi Pilloni.
Il trapianto è un’esperienza che coinvolge anche la famiglia del paziente, come emerso già da queste testimonianze e come ha ribadito Giulia Carboni, figlia di Gianni, trapiantato di fegato. Prima che suo padre si ammalasse e avesse bisogno di un trapianto, ha raccontato, non aveva mai pensato alla donazione e oggi la preoccupa una cosa in particolare: «C’è tanta disinformazione, anche sulla qualità di vita del trapiantato. Cinque anni dopo, io posso dire che mio padre non sta su un lettino d’ospedale, ma è qui». E a chi non accetta l’idea che per donare gli organi occorra toccare il corpo di un defunto raccomanda di riflettere sul fatto che «da questa tragedia si può trarre qualcosa di molto positivo: dare la vita a una persona». Ecco perché l’informazione e la discussione su questi temi sono imprescindibili, ecco perché le associazioni come la Prometeo organizzano questi eventi e gli operatori dell’informazione come noi li raccontano. Dobbiamo assolutamente cogliere l’invito del dott. Tramontin: «Parlatene con tutti perché abbiamo tanti pazienti che stanno ancora aspettano un organo» (secondo i dati del SIT, al 20 novembre in Italia erano in tutto 9.223).
Foto Andrea Caria