RICORDANDO IL MEDICO-FILANTROPO ALBERT SCHWEITZER
Da una pubblicazione degli anni ’60 un articolo dell’insigne cattedratico torinese A. Mario Dogliotti
di Ernesto Bodini (giornalista scientifico e biografo)
Il frontespizio della libro
La passione per le biografie, specie se riferite ad autorevoli protagonisti della scienza medica e della solidarietà umana, mi ha sempre accompagnato dall’età post-adolescenziale a tutt’oggi. Diversi sono i personaggi che mi hanno particolarmente affascinato, sia per la loro vivacità intellettuale che per le loro scelte di carattere umanitario, dal cui operato si possono apprendere lezioni di vita, ancorché avvalorate da quella filosofia che ci deve indurre a considerare la generosità, non solo come atto di mero altruismo ma anche come il primo dei nostri doveri etico-esistenziali. Anche se non tutti possono rientrare nell’ottica della pura filantropia, sarebbe sufficiente avvicinarsi con il pensiero e magari con qualche modesto proposito, esprimendoci con sentimenti di bontà e lungimiranza come quelli che hanno accompagnato la scelta di vita del dottor Albert Schweitzer (1875-1965), noto a tutti quale teologo, filosofo, organista e medico filantropo in Africa, dove ha vissuto e curato per oltre mezzo secolo i negri del Gabon. Tra la mia ricca documentazione biografica e autobiografica che lo riguarda, di tanto in tanto amo soffermarmi su alcune pagine dedicate alla memoria de le “Grand Docteur”, una pubblicazione del 1965 (Della Volpe Editore) dal titolo Il dottor Schweitzer tra i cui capitoli molti i contributi di vari autori pubblicati da diverse testate giornalistiche, come La Stampa dell’8/9/1963 che riporta un articolo a firma del prof. Achille Mario Dogliotti (1897-1966), insigne medico cattedratico torinese, il cui testo ripropongo integralmente.
Schweitzer missionario della Medicina
«Molte cose sono state scritte in questi giorni su quest’uomo d’eccezione, premio Nobel per la pace, letterato, filosofo, musicista, ed infine medico per cinquant’anni della gente più misera della terra, definito, da uno che fu grandissimo, l’Einstein, e da un referendum popolare americano, “il più grande dei contemporanei”; e molte altre cose che si potrebbero aggiungere per spiegare l’immensa risonanza avuta dalla sua vita e dalla sua opera. Non vi è dubbio che per mesi ed anni egli abbia incontrato ogni genere di difficoltà, visionario per alcuni, emissario sospetto per altri, in odore di santità per altri ancora. È probabile che la sua fede nel compito che si era proposto di svolgere al servizio della vita altrui vacillasse più volte e dobbiamo credere che proprio da questa sua prima contrastata esperienza egli abbia tratto una somma di preziose conoscenze sui costumi, sulle superstizioni, sulla mentalità della gente della foresta, che dalla foresta si muoveva per la prima volta, sfidando gli esorcisimi degli stregoni. Non dimentichiamo che molti anni egli era solo con la moglie e qualche indigeno di buona volontà e che era più facile vincere la diffidenza degli uomini della foresta accogliendoli in una baracca di legno che non in un moderno ambulatorio. Non stupisce che egli difendesse la sua creatura, nata e cresciuta tra gli stenti, ma adeguata ai bisogni dei tempi, dai consigli non sempre disinteressati degli ultimi arrivati che avrebbero voluto trasformare il grande villaggio in un nosocomio modello, con bagno obbligatorio per tutti, allontanare i familiari degenti, calcolare il cibo in calorie e così via. L’esperienza di Schweitzer e dei molti che come lui furono i pionieri di una stessa opera di amore è stata estremamente utile in quanto ha permesso di vincere i sospetti e dimostrare alla gente delle tribù, quali immense possibilità di benessere possa loro venire da un progressivo estendersi dei benefizi della medicina moderna».
Ma perché rievocare testimonianze come quella del prof. Dogliotti? Personalmente ritengo essere un “toccasana”, specie di questi tempi, ricordare esempi di umana solidarietà non priva di rinunce e sacrifici (puro evergetismo) la quale, a volte, si confonde con la più “semplice” espressione di mero volontariato. Due concetti non certo in competizione, ma sicuramente caratterizzati da una impronta intenzionale, soprattutto pragmatica e filosofica… sottilmente diversa. Con questa osservazione mi rendo conto di essere un impenitente anticonformista, ma allo stesso tempo un convinto sostenitore di quanto affermava il dottor Schweitzer: «Non esiste l’eroe dell’azione, ma della rinuncia e del sacrificio». E questo, credo che il prof. Dogliotti lo abbia non solo evidenziato ma che concepito nella piena condivisione con la sua testimonianza.