RICORDO DI RHENA SCHWEITZER MILLER A DIECI ANNI DALLA SCOMPARSA
di Ernesto Bodini (giornalista scientifico)
Si dice che talvolta i figli ereditano dai genitori, e questo può valere dal punto di vista genetico (fisionomia, portamento e non di rado anche malattie). Ma per quanto riguarda intelligenza, caratterialità, predisposizioni e ambizioni non è poi così scontato, anzi! Tuttavia sono sempre da considerare le eccezioni che, se non manifestate nei primi anni di vita, in un periodo successivo della stessa possono concretizzarsi (più o meno inaspettatamente), sia pur a seconda del tipo di rapporto-vicinanza che c’è stato tra genitori e figli. Uno di questi casi emblematici è rappresentato dalla figlia di Albert Schweitzer (1875-1965), Rhena (1919-2009) che, pur avendo vissuto molti anni in Europa lontana dal padre medico-filantropo a Lambaréné (Gabon) e premio Nobel per la Pace, con gli anni non è venuta meno alla sua indole per la massima considerazione e assistenza per i più deboli e diseredati. Per una serie di vicissitudini lo ha potuto raggiungere solo nel 1957 (aveva 39 anni), dopo la morte della madre a Zurigo e, a riguardo, nelle varie interviste rilasciate a quotidiani e periodici, spiegò: «Lo vedevamo davvero poco, ma una bambina si abitua facilmente alle circostanze della vita; mentre per mia madre era una situazione molto, molto difficile. Anche se ho vissuto lontano da lui, la mia infanzia è stata felicissima… Ma come si può giudicare mio padre? Aveva una vocazione universale, alla quale si è dedicato totalmente». Rhena lavorò accanto al padre nel suo omonimo ospedale, sia come responsabile del laboratorio analisi che come amministrativa, mantenendo un rapporto di collaboratrice (senza privilegi) e al tempo stesso di padre-figlia. E fu proprio in questi anni che imparò a conoscerlo, soprattutto in alcuni aspetti del suo carattere che da altri non erano… percepiti. Il vecchio e saggio Albert amava l’Africa, la natura e tutto ciò che era vita, e con esse la musica che lo aveva ammaliato sin dalla sua infanzia tanto continuare a suonare (nei momenti di relax) il pianoforte in piena giungla, che la Società bachiana di Parigi gli aveva donato a fatto giungere a Lambaréné, i cui tasti erano stati appositamente fissati per sopportare l’umidità e l’assalto delle termiti. Toccante è un’altra sua testimonianza: «Era il mio capo e mio padre. Era molto severo con tutti e io accettai la sua autorità. Ma la sera, quando gli davo la buona notte, facevamo delle discussioni molto accese, soprattutto sull’ospedale. Discutevamo molto sui consumi di energia: c’era un generatore, e i generatori avevano vita breve, lui tendeva a risparmiare l’elettricità mentre io, per il laboratorio, ne avevo molto bisogno… Dopo la cena si ritirava in camera, continuava a scrivere lettere, a lavorare ai suoi libri, piegato sulla scrivania. Negli ultimi anni la sua lampada a petrolio si spegneva verso le 11 di sera…». Anche se Rhena Schweitzer non leggeva nulla di Teologia, era una credente ma non in una religione organizzata. Il padre seguiva le orme di Gesù sostenendo di essere andato in Africa per compensare il male fatto dai bianchi (il riferimento è al colonialismo europeo, ndr), ed era molto aperto alle altre religioni; vedasi, ad esempio, la sua opera letteraria “I grandi pensatori dell’India” edita da Donzelli nel 1997.
«Predicava all’aperto – spiegò ancora la figlia – rivolgendosi a chi voleva ascoltarlo, e lasciava a tutti la completa libertà di pensiero e di espressione. Il rapporto di mio padre con gli africani era questo: “Io sono vostro fratello, ma vostro fratello maggiore”. Oggi questo comportamento viene talvolta criticato; si dice che fosse paternalista con gli africani, ma in realtà lo era con tutti. Smise di predicare a 85 anni lasciando questo compito ai collboratori, ai quali chiedeva che conoscessero la medicina e che avessero il senso dell’umorismo. Ero lì quando morì, dopo una vita piena, e una sola settimana di malattia. Morì in pace, pianto dai pazienti e dai medici». Rhena Schweitzer dopo la morte del padre rimase in Gabon ancora alcuni anni, poi si trasferì negli Stati Uniti avendo sposato un chirurgo (dottor Miller) impegnato in opere umanitarie, dedicandosi con il marito all’assistenza medica dell’infanzia in Afghanistan, Bangladesh, Etiopia, Haiti, India, Nigeria, Pakistan, Vietnam e Yemen. Insieme al filantropo Harol Robles fondò l’Istituto Albert Schweitzer per le Discipline Umanistiche (ASIH); oltre alla creazione del “Reverence for Life Comendation” nel 1990, per riconoscere gli sforzi umanitari seguendo la filosofia del filantropo alsaziano. La signora Rhena, pur sapendo di essere la figlia di un uomo eccezionale, non ne ha ricalcato le orme “sfruttandone” mediaticamente il nome, ma ha continuato nella sua opera altrettanto umanitaria facendo parlare poco di sé. Ma si sa, per i grandi parlano i posteri e lei, a suo modo, è stata una filantropa che personalmente ho voluto ricordare con queste brevi note.
Che bella storia, quella di Rhena e di suo padre. Mi chiedo quanti li conoscono…. mi ha sempre affascinato quest’uomo….
Gentile Fabrizia,
più passano gli anni e meno si ricorda la storia e l’esempio del dott. Schweitzer,
della cui biografia mi occupo da anni. Ma di questi tempi fa specie che il Papa
non lo citi come esempio, trasmettendo ai Fedeli questo ricordo, in particolare
a mister Putin e mister Zelensky, se non a voce almeno con una breve missiva
su carta del Vaticano, rammentando il credo del medico alsaziano che era:
“Rispetto per la vita”. Forse… Cordialità. Ernesto Bodini