Riflessioni sull’eccessivo edonismo moderno
di Ernesto Bodini
(giornalista e opinionista)
Anche quest’anno immancabile l’appuntamento con il Festival della Canzone di Sanremo (giunto alla 68° edizione), trasmesso dai Rai 1 in prima serata. In corsa tanti beniamini dalla voce canora, melodiosa, sentimentale o di altro tenore, presentati da altrettanti valenti big dello spettacolo (tutti e tre lautamente remunerati, per un totale, dicono le cronache della trasparenza, di 1 milione e 300 mila euro). Tra gli ospiti d’onore nella puntata di mercoledì 7 febbraio, il veterano dei presentatori televisivi Pippo Baudo che, salito sul palco, ha ricevuto scroscianti applausi dalla platea, una standing ovation quasi interminabile e lui, il mitico, un rimando con un susseguirsi di «Grazie, grazie, grazie; vi voglio bene; grazie a tutti». E poi ho smesso di “sbirciare” tale programma, quanto è bastato per rendermi conto di quel tanto osannare che si fa in tali circostanze, non dissimili (se non peggio) dalle manifestazioni in sede di stadi sportivi. Volendo fare un parallelo storico non si può che far mente locale, ad esempio, su quanto avveniva nelle arene degli antichi romani dove gli intrattenimenti erano di tutt’altro genere, per la verità molto cruenti: i protagonisti combattevano fra loro sino a sopprimersi, e questo per soddisfare le menti malate dei regnanti. Ora, è pur vero che il paragone fra le realtà di ieri e quelle di oggi non regge, ma nella “similitudine” si ravvisa l’eccessiva (se non spasmodica) enfasi del pubblico nell’accogliere i suoi beniamini, per lo più noti per via dei mezzi di comunicazione e non per via diretta. Queste attenzioni così morbose nel rendere più popolari i personaggi dello sport e dello spettacolo in genere, contribuiscono ad ingigantire la loro fama attirando l’attenzione degli sponsor e, di conseguenza, ad incrementare il loro conto in banca. Tali considerazioni, che possono essere lette come del tutto personali, e lungi da me pretendere il contrario, mi inducono a porre una domanda: quanto pubblico hanno avuto (a parte gli addetti ai lavori) scienziati e filantropi (non in senso economico) che con il loro lavoro, peraltro senza arricchirsi, hanno contribuito notevolmente al benessere dell’umanità? Anche se allora esistevano pochissimi mezzi di comunicazione il “tam tam” era comunque sufficiente per riempire le piazze o le platee; e c’é ragione di credere che ben pochi sono stati i ringraziamenti e i riconoscimenti (se si escludono i Premi Nobel), il cui valore lo si può apprendere da fonti storiche individuabili da chiunque. È quindi palese che la vita terrena deve proseguire con tutti i suoi pro e i suoi contro, ma bisognerebbe tener presente che gli appartenenti al benessere fisico e materiale ben poco si avvedono del malessere altrui; forse è la legge della Natura e dei tanti misteri esistenziali, che vede l’egoismo poggiare le basi sulla futilità eludendo la sobrietà, la modestia e quindi l’altruismo.
A questo riguardo vorrei rammentare che il grande maestro della felicità Epicuro (341-270 a.C., nell’immagine) ha suddiviso in modo esemplare i bisogni umani in tre classi: i naturali e necessari (quelli che, se non soddisfatti, causano dolore); quelli naturali ma non necessari (come il bisogno di soddisfacimento sessuale); quelli non naturali e non necessari (come il lusso, l’opulenza, il fasto, il lustro e tanti altri ancora). Chi non si è mai sognato di aspirare a determinati beni non ne soffre la mancanza, ed anche se ne è privo è completamente soddisfatto; mentre chi possiede di più (solitamente sempre più ingordo) si sente infelice in quanto gli manca ciò a cui aspira. Quindi il benessere delle persone agiate di solito non inquietano le persone di pochi mezzi o risorse, ma il perseguire l’agiatezza (beni materiali e fame di gloria) ricalca quel detto: la ricchezza somiglia all’acqua del mare, più se ne beve più aumenta la sete. La nostra società è inesorabilmente in continua evoluzione, e con essa quanto di più e meglio “offre” l’intraprendenza umana, ma i suoi valori interiori a mio avviso resteranno sempre modesti (e talvolta assenti), e ben pochi saranno gli eletti incontaminati da quella ricchezza che poco o nulla vale ai fini dell’umana esistenza. Tutto ciò mi induce a rammentare la convinzione di A. Schopenhauer (1788-1860), il quale sosteneva: «In un genere come quello umano, così bisognoso e costituito di bisogni, non c’é da meravigliarsi che la ricchezza sia stimata, anzi venerata maggiormente e più sinceramente di ogni altra cosa, tanto che persino il potere è visto solo come un mezzo per pervenire alla ricchezza; ne c’é da meravigliarsi che, al fine di ottenerla, tutto il resto sia messo da parte o buttato all’aria, ad esempio la filosofia ad opera dei cattedratici». Sin qui non credo di aver scritto qualcosa di indegno della mia penna (perdon, del mio mouse!), e di aver “scomodato” inutilmente due storici saggi che, insieme ad altri, affermerebbero che la gloria è un veleno che si deve prendere a piccole dosi.