Sacco & Vanzetti: due protagonisti contro l’ingiustizia d’oltreoceano

La storia insegna?

Non c’è stagione per apprezzare un bel film, specie se la trama ci riporta alla “rivalutazione” dei diritti e al rispetto della dignità e della vita umana. In questi giorni di agosto una delle proposte filmiche televisive riguarda la Storia di Sacco & Vanzetti, mandata in onda da una emittente nazionale. Una pellicola italo-francese del regista Giuliano Montaldo del 1971, con l’ottima interpretazione dei principali protagonisti Gian Maria Volonté e Riccardo Cucciolla, e colonna sonora di Ennio Morricone. Se è vero che all’inizio del secolo scorso in America gli italiani immigrati erano considerati ladri, ignoranti e sporchi, forse è bene rievocare, sia pur sinteticamente, la vicenda di due sfortunati nostri connazionali la cui vicenda ha ispirato il film e, nel suo contesto, riproposto le molteplici tematiche legate alla in-giustizia (americana) per una sana e doverosa riflessione.

Ferdinando Nicola Sacco, pugliese, classe 1891, e Bartolomeo Vanzetti, piemontese, classe 1888, emigrarono in America rispettivamente nel 1909 e nel 1908. Nonostante la precarietà dovuta alla non conoscenza della lingua e delle loro modeste origini, si prestarono a diversi lavori, il primo alle dipendenze di un calzaturificio, il secondo mettendosi in proprio come pescivendolo dopo molte esperienze lavorative di vario genere. “Nick” e “Bart” (così erano chiamati dagli americani), si conobbero solo nel 1916 entrando a far parte di un gruppo anarchico italoamericano, sostenitori del principio di fratellanza universale su cui dovrebbe basarsi la convivenza umana. Dopo la guerra tornarono dal Messico dove si erano “rifugiati” per evitare la chiamata alle armi, non per codardia ma perché per un anarchico non c’è nulla di peggio che uccidere o morire per uno Stato. Non sapevano però di essere inclusi in una lista di sovversivi redatta dal Ministero di Giustizia, tanto meno di essere pedinati dagli agenti segreti americani.

Nel maggio del 1920 vennero arrestati perché in possesso di volantini anarchici e alcune armi. Dopo alcuni giorni di estenuanti interrogatori vennero accusati dal procuratore  Gunn Katzamann anche di una rapina avvenuta a South Braintree, un sobborgo di Boston, quasi un mese prima del loro arresto (15 aprile 1920), in cui erano stati uccisi il cassiere della ditta “Slater and Morrill” e una guardia giurata. Vanzetti fu accusato anche della rapina ai danni di un furgone che trasportava le paghe degli operai di un calzaturificio, avvenuta il 24 dicembre 1919 a Bridgewater. Per questi fatti i due italoamericani vennero mandati a processo (in realtà i processi furono tre) e condannati a morte. In tutte le fasi processuali non vennero mai chiarite le vere responsabilità in quanto non è mai esistita alcuna prova inconfutabile della loro responsabilità; un giudizio che non fu mutato nonostante la confessione del detenuto portoricano Celestino Madeiros, che ammise di aver preso parte alla rapina e di non aver mai visto né Sacco né Vanzetti.

Nel corso delle numerose e “tumultuose” udienze, a parere di molti, vi furono da parte di polizia, procuratori distrettuali, giudice e giuria (compreso il clero) una accesa volontà di perseguire politicamente i due imputati e mandarli alla sedia elettrica serviva palesemente come esempio a tutti i militanti della sinistra (schierati o meno). Una vera e propria politica del terrore (che ci ricorda, per certi versi, quella instaurata nel periodo della Rivoluzione Francese) voluta dal ministro della Giustizia Palmer e culminata nella vicenda delle deportazioni. Un verdetto condizionato, quindi, tanto da considerare Sacco e Vanzetti due “agnelli sacrificali” utili per testare la nuova linea di condotta contro gli “avversari” del governo, come sono stati considerati i due imputati, ancorché immigrati italiani con scarsissima comprensione della lingua inglese.

Vanzetti, rivolgendosi al giudice Thayer, disse: «Quando le sue ossa non saranno che polvere, e i vostri nomi e le vostre istituzioni non saranno che il ricordo di un passato maledetto, il nostro nome sarà ancora vivo nel cuore della gente. Noi dobbiamo ringraziarvi. Senza di voi saremmo morti come due poveri sfruttati: un buon calzolaio e un bravo pescivendolo… E mai in tutta la nostra vita avremmo potuto sperare di fare tanto in favore della tolleranza, della giustizia, della comprensione fra gli uomini… Però se voleste ripensarci non sarebbe male». Nicola Sacco, probabilmente per certi versi più “rassegnato”, o forse perché non in grado di sostenere le sue interiori considerazioni di fronte alla Alta Corte, si limitò a rivolgersi al giovanissimo figlio con una breve lettera: “Possono bruciare i nostri corpi oggi, ma non possono distruggere i nostri corpi, non possono distruggere le nostre idee, esse rimangono per i giovani del futuro, per i giovani come te…».

A nulla servì la massiccia manifestazione popolare che si tenne per dieci giorni e dieci notti davanti al palazzo del governo di Boston. Anche il governo italiano (allora fascista) prese posizione attivandosi a sostegno dei due connazionali, nonostante le loro idee politiche. Persino Mussolini pare ritenesse il tribunale statunitense “ostile” per ragioni di pregiudizio, e per questo sia i funzionari del Ministero degli Esteri e l’ambasciatore italiano a Washington che il Console italiano a Boston si prodigarono presso le autorità degli Stati Uniti per ottenere prima una revisione del processo e poi la grazia per i due italiani, senza successo. E nemmeno servì una campagna con la raccolta di 50 milioni di firme in tutto il mondo che comprendevano anche quelle di intellettuali come Albert Einstein, Bertrand Russell, George Bernard Shaw.

La condanna fu irrevocabile e, dopo circa sette anni di detenzione (nella notte tra il 22 e il 23 agosto 1927), fu eseguita mediante scarica elettrica nel penitenziario di Charlestown nello Stato del Massachusetts. La loro esecuzione innescò rivolte popolari sia a Londra che a Parigi e in diverse città della Germania. I corpi dei due anarchici furono cremati e oggi le loro ceneri si trovano nel cimitero di Villafalletto (Cuneo), paese natale di Vanzetti. È almeno significativo, ma non certo consolante, il fatto che il 23 agosto 1977 ossia 50 anni dopo, il governatore del Massachusetts, Michael Dukakis, emanò un proclama che assolveva i due uomini dal crimine, affermando: «Io dichiaro che ogni stigma e ogni onta vengano per sempre cancellati dai nomi di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti». Della vita dei due protagonisti-innocenti e dell’intera vicenda giudiziaria che li riguarda, ne parla Lorenzo Tibaldo, che raccoglie le loro “Lettere e scritti dal carcere” (Edizioni Claudiana, 2012, pp. 324, € 28.00).

Si potrebbero fare innumerevoli considerazioni, anche piuttosto incisive, ma personalmente ritengo sia sufficiente affermare che spesso le Amministrazioni di giustizia di molti Paesi sono (ancora) utilizzate da gruppi di potere per eseguire assurde vendette politiche, rendendo sudditi i propri connazionali. E ciò, costruendo false accuse e false testimonianze contro le persone che si vogliono colpire (soprattutto se deboli ed inermi), e non è certo difficile trovare giudici disposti a emettere  la sentenza di condanna; tant’è che a tutt’oggi in 33 Stati americani esiste ancora la pena di morte. Ai lettori lascio ogni ulteriore considerazione, affinché si prodighino per diffondere il mantenimento dei valori inalienabili della dignità umana, e quindi il rispetto della vita dell’Essere… che vuole vivere.

 

Ernesto Bodini

(giornalista scientifico)

Astelin

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