Raccontonweb: “Sarò lì ad aspettarti” di Lucia Bonanni
Sarò lì ad aspettarti
Non se lo ricordava così vibrante di luce, d’amore e di pace quel sole che tante volte gli aveva abbronzato la pelle mentre se ne stava sul molo a guardare il traghetto pieno di turisti che salpava verso le isole dell’arcipelago. E tante volte si era messo a fantasticare e si era ritrovato sulla coffa di un galeone a scrutare l’orizzonte per vedere apparire in lontananza isole colme di tesori.
Neppure gli sbuffi di vento si ricordava così frizzanti adesso che gli accarezzavano le mani screpolate dal lavoro e gli scompigliavano i pochi residui di quella capigliatura di riccioli scuri come il mare di notte.
Se la vide venirgli incontro, la sua piccina, nel suo paltoncino tutto rosa e la cuffietta di pile con le orecchie che la facevano assomigliare ad un confettino traballante e gli tremò la voce, quando la chiamò per nome.
Quasi stentava a credere che fosse tutto vero… l’aria… il sole… la sua bambina sorridente… la sua compagna che tanto l’aveva aspettato… e quel maledetto portone che finalmente si chiudeva alle sue spalle.
“Oggi esci… vai a preparare la tua roba…” gli avevano detto e di lì a qualche ora l’avevano fatto uscire anche senza scorta.
Ma quanto tempo era passato… quanto tempo… quasi non lo ricordava più! Quanti giorni erano trascorsi da quella sera, quando l’avevano beccato all’uscita della metropolitana con quei pochi grammi di erba, nascosti nella piega del giubbotto.
Per puro caso l’aveva scampata quel pomeriggio di fine estate, quando si era introdotto in un negozio di mercerie, deciso a farsi consegnare l’incasso dell’intera giornata. Le aveva anche buscate dal proprietario, che subito l’aveva individuato e subito aveva dato l’allarme. Soltanto per un soffio era riuscito a fuggire e a nascondersi tra gli anfratti rocciosi di quel canyon non molto lontano dal suo paese e che lui conosceva palmo a palmo.
E pensare che era sempre stato, come si soleva dire, un bravo picciotto, di buona famiglia, bene educato, di viva intelligenza, studioso, socievole, generoso ed altruista; un ragazzo dall’animo poetico ed una connaturata predisposizione per la musica, forse meno corazzato degli altri per non rimanere invischiato in fatti più grandi di lui.
Giusto il tempo per sviare le indagini, saltando da un treno all’altro, si era ritrovato a girare tra le nebbie di una città del nord Italia in cerca di un indirizzo civico che gli aveva dato un amico. A tradirlo erano stati il suo accento isolano e quella valanga di riccioli, messa in evidenza nella ricostruzione dell’identikit.
“Wanted… dead or alive”, manco fosse stato il peggiore dei furfanti, si disse mentre gli stringevano i polsi e lo caricavano sul furgone per condurlo direttamente all’Istituto Penale.
Non c’erano sorrisi tra quelle sbarre che negavano anche la luce e non c’era proprio nessuno a educare sentimenti tanto contrastanti. Si sentiva inutile, spogliato di ogni parvenza d’amore, privato di ogni forma di responsabilità.
Il muro di cinta copriva tutto. Attraverso quella cortina di pietre non era possibile vedere neanche il cielo. Soltanto da un punto vicino ad una finestra del corridoio si riusciva a vedere un panorama che sembrava quasi dipinto e respirare quel briciolo di libertà che ancora attraversava le ansie del vivere. Era lì che Piero tornava bambino e si ritrovava davanti a quel negozio di giocattoli vicino casa. Nella grande vetrina adesso immaginava gli alberi, le case, il verde, le macchine, il molo, le barche, il sole, il mare, quel mondo che gli era caro e che aveva perso per sempre.
Per stemperare la solitudine ed eludere la presa del tempo, si ingegnava in piccoli lavori, curava le piante nel cortile interno dell’Istituto e non mancava di aiutare i compagni anche nello studio di notazioni musicali.
“Chiove ‘ncoppa a sti palazze scure… chi song ‘je… che cammino ‘mmiezo ‘a via parlanno ‘e libertá… ma che succede… je sto chiagnenno penzanno ‘o tempo… ca se ne va…”, “Vorrei tornare indietro… per rivedere gli errori…e accelerare il mio processo interiore…”, cantava spesso con voce lenta e il cuore che gli moriva nel petto.
Il legale che avrebbe dovuto difenderlo nel processo, era una persona dai modi rassicuranti e non mancava giorno che non si mettesse in contatto con i familiari di Piero o si recasse a fargli visita.
“Non temere, quando ti condurranno in aula. Io sarò lì ad aspettarti. Non devi aver paura di niente, non sei solo. Ci sarò io lì con te. Pensa alla tua bambina, alla tua compagna, a tua madre, alla tua stessa vita che aspetta solo te per iniziare di nuovo”, lo rassicurò Ola il giorno precedente l’udienza.
Promise che non avrebbe pianto, che avrebbe parlato come era solito fare, che non avrebbe avuto paura, che avrebbe portato con sé l’immagine dei suoi cari e quel peluscino rosso che gli rammentava la sua bambina.
Dopo qualche giorno dall’udienza, anzi dopo tre giorni precisi dall’udienza, sembrava quasi una resurrezione… era un sabato pomeriggio, Ola stava lavorando al computer, quando le era giunta una nuova mail:
“Ero carcerato… e adesso sono a casa… ma come é stato? Grazie infinite… ci sentiamo presto… vorrei parlarle di persona. Anche i miei desiderano ringraziarla”.
Le aveva mandato anche una foto. Sorrideva. Aveva lo sguardo sereno. Guardava l’orizzonte.
E adesso… adesso quanto tempo era passato! Adesso che il portone del carcere si era chiuso alle sue spalle e per lui iniziava un nuovo percorso di vita, un cammino protetto dalla presenza dei suoi familiari, dal sorriso della sua bambina, dall’amore della sua compagna, dalla costante parola del suo legale e da quella siepe di gelsomino che lasciava filtrare l’odore aspro della salsedine, le calde folate di scirocco, i raggi di quel sole che si facevano ancora più vivi, le luci intermittenti del faro e i fischi del traghetto pieno di turisti che salpava verso le isole dell’arcipelago in cerca di chissà quali tesori.
A lui non restava altro che aspettare, aspettare che il tempo facesse il proprio corso… perché é sempre un aspettare nella vita… aspettiamo una buona parola… aspettiamo l’esito di un esame… quello di una sentenza… aspettiamo un gesto che ci faccia sentire amati… un sorriso che riempia i vuoti dell’esistenza e ci porti a guardare un arcobaleno di sogni.
Lucia Bonanni
Di quest’autrice abbiamo già pubblicato “La multa” e “Il sentiero della maternità”