“SECOND OPINION”: DIRITTO DEI PAZIENTI AFFETTI DA UNA PATOLOGIA SEVERA
di Ernesto Bodini (giornaliasta scientifico)
Forse a non pochi medici capita di essere interpellati da pazienti, soprattutto se colpiti da una neoplasia, per una seconda opinione sia per quanto riguarda la diagnosi che per la terapia. Da recenti sondaggi questa realtà nel nostro Paese si presenta un po’ a macchia di leopardo mentre è più diffusa all’estero, in quanto è piuttosto unanime il fatto che il momento della comunicazione della diagnosi di una malattia importante come il tumore, è particolarmente delicato e rappresenta un maggior “impegno” da parte del clinico che si vede maggiormente coinvolto dalla emotività ed apprensione del paziente. E sono ancora molti i pazienti ansiosi che, con il loro fardello di esami clinici, dopo il primo responso si trovano a dover fare il cosiddetto “giro delle sette chiese”, talvolta emigrando anche all’estero, con la speranza di incontrare il luminare che dia loro un secondo parere, e il conforto di un responso meno negativo… Ma come si arriva ad individuare lo specialista per avere una “second opinion”? E questa esigenza è un diritto del malato o una sorta di “optional”? I pareri sono discordanti perché c’é chi ritiene sia uno spreco di risorse, perdita di tempo e con il rischio di “screditare” quel tal professionista o quella determinata struttura sanitaria; mentre in Paesi anglosassoni e in Francia, ad esempio, la “second opinion” è una pratica comune e del tutto naturale; negli Stati Uniti, dove vige il sistema assicurativo, in molti casi è addirittura obbligatoria in tutti i Servizi di eccellenza e raccomandata dalle linee guida delle associazioni mediche. La British Medical Association, come riporta il Corriere della Sera del 23 gennaio scorso, impone di rispettare la richiesta del paziente di un altro parere e raccomanda di fornire indicazioni utili e tutti i dati clinici in possesso. I medici si adeguano volentieri, anche perché sono più protetti da eventuali rivalse legali. È evidente che, al di là della rassicurazione dal punto di vista legale, il condividere e soddisfare l’esigenza di questi pazienti è un fatto non solo oggettivo ma anche culturale, la cui carenza in Italia è data dal fatto che il nostro SSN sottovaluta questo diritto, peraltro presente solo nella Carta dei diritti del malato, proposta dall’allora ministro Umberto Veronesi. Il perdurare di questa carenza è un fatto a dir poco increscioso che vede questi pazienti sofferenti due volte: per la diagnosi poco rassicurante e poi vedersi negare una possibile opportunità diagnostica e/o terapeutica che, verosimilmente, in taluni casi potrebbe capovolgere la situazione alienando il loro stato d’animo attraverso quell’orizzonte che si chiama speranza… Allora perché continuare a negare un diritto avendo a disposizione medici specialisti di chiara competenza ed esperienza, strutture tecnico-sanitarie e terapie farmacologiche all’avanguardia? Tale diniego richiama alla memoria i cosiddetti “viaggi della speranza”, ovvero l’emigrazione da una Regione all’altra (se non anche all’estero) con le possibili conseguenze sia dal punto di vista del disagio che da quello economico… favorite dal federalismo sanitario; infatti non a caso molti pazienti affetti da particolari patologie residenti nel Sud, si rivolgono al Nord con la quasi certezza di ottenere le attenzioni e le cure più appropriate… Ma c’é ancora un altro aspetto che consiste nel fatto che alcuni pazienti non sanno di avere questo diritto (sia pur non “istituzionalizzato”) e come poterlo fruire. In questi anni di attività giornalistica e di impegno sociale mi è capitato di aiutare alcune persone malate di tumore che avevano l’esigenza di un secondo parere, ma non sapevano a chi rivolgersi e come fare. Molto modestamente, conoscendo un po’ “più da vicino” il mondo medic0 e sanitario, quando ho potuto e quando le circostanze me lo hanno consentito mi sono fatto prodigo segnalando uno o più professionisti di riferimento che si sono resi disponibili nel loro ruolo istituzionale (con l’impegnativa del SSR), con professionalità e calore umano. Questo mio “modus operandi” nell’ambito per me della “doverosa” solidarietà, dovrebbe essere proprio di associazioni e volontari, se non anche delle Istituzioni, affinché tutti coloro che hanno la necessità di interpellare una “voce alternativa” possano individuarla e raggiungerla senza difficoltà…
«Secondo la mia esperienza – ha affermato al Corriere il prof. Claudio Mencacci, direttore del Dipartimento di salute mentale dell’ospedale Fatebenefratelli di Milano – la “second opinion”, nelle persone che vengono poste di fronte a una diagnosi severa e impegnativa, aumenta la capacità di aderire alle cure, il che è molto importante per l’esito delle terapie. Rinforza la convinzione di aver fatto la scelta giusta e aumenta la consapevolezza della propria situazione. Svolge quindi in questo senso una funzione molto positiva». Quindi, anche il rapporto empatico ha la sua importanza nell’instaurare la cosiddetta compliance, affinché il paziente possa seguire al meglio le indicazioni del medico. Per i titubanti o poco inclini a concedere una “second opinion”, l’articolista del quotidiano riporta alcune raccomandazioni suggerite dagli oncologi americani, come si rileva dal sito del Cancer Supportive Care Program, un’associazione che aiuta i malati di cancro. E sono essenzialmente quattro i motivi per chiedere un secondo parere, soprattutto da parte dei malati oncologici. Primo: quando si tratta di una malattia molto seria, se la diagnosi viene sbagliata la prima volta, potrebbe non esserci una seconda chance; secondo: il medico è un essere umano e quindi può sbagliare; terzo: un altro medico può notare delle cose che il primo non ha visto; quarto: un altro medico può sapere delle cose che il primo non sa. Indicazioni talmente palesi, a mio avviso, che sembrano scontate; ma in realtà non è così perché volendo approfondire l’argomento l’esigenza di un secondo parere riguarda pazienti affetti anche da altre patologie non meno severe, come ad esempio quelle neurologiche e/o psichiatriche, o le malattie rare che sono assai varie per numero e per entità. Ed è scontato ed umano che il paziente non vuole dubbi, e che il medico deve infondere sicurezza; una sicurezza che passa attraverso il suo vissuto e la sua esperienza. E in tal senso va precisato che il “paradigma” delle certezze assolute individuabili con la “second opinion” non escludono in ogni caso l’incertezza e il dubbio diagnostico e/o terapeutico, e da qui l’esigenza di scelte condivise per giungere ad una alleanza terapeutica dove l’umanità dell’uno diviene chiave di accesso all’umanità dell’altro. Preludio ad una medicina umana nel rispetto e nell’osservanza sia per la prima che per la seconda opinion.