Storia di un errore giudiziario e di una fortunata casualità
di Marcella Onnis
Quando lo scorso fine settimana sono partita per seguire un po’ del festival letterario L’Isola delle storie a Gavoi, non potevo certo immaginare che il ricordo più bello non si sarebbe formato lì, bensì a Mamoiada.
Sulla via del ritorno, superato il grazioso paese di Lodine, io e le mie compagne di viaggio, Roberta e Silvia, decidiamo di fare un ultimo tentativo di visitare il santuario dei SS. Cosma e Damiano: una persona di Mamoiada, infatti, ci ha informate che è aperto e visitabile dal 1° luglio e fino a settembre (la festa dei santi cade il 27 di questo mese, ma a luglio comincia la questua), tuttavia il giorno precedente e la mattina l’abbiamo trovato chiuso. Con grande sorpresa e gioia, invece, nel pomeriggio lo troviamo aperto. Scopriamo subito che, in realtà, il santuario non è aperto per le visite, ma per lavori di pulizia e riordino: le persone che troviamo lì, intente a faticare, però, non sembrano affatto seccate per la nostra interruzione, anzi, sembrano contente e, in ogni caso, si mostrano estremamente accoglienti. Insomma, la proverbiale ospitalità barbaricina è sì così tanto elogiata da diventare oggetto di parodia, ma è un dato di fatto che nota non solo il “continentale” o lo straniero, ma anche il sardo di altra zona. I “custodi” ci lasciano libere di visitare l’interno del santuario, compreso l’ambiente dietro l’altare, che conserva parte degli originari e bellissimi affreschi.
Terminata la visita alla chiesetta, il priore della festa ci invita a bere un caffè e così iniziamo una chiacchierata che prenderà strade assolutamente impreviste. Da principio gli facciamo qualche domanda sulle cumbessias, piccoli alloggi costruiti intorno al santuario, che subito ci hanno fatto pensare ai muristenes del santuario di Santa Cristina, a Paulilatino, visitato la settimana precedente. Diversamente da questi ultimi, le cumbessias – a parte un paio – non sono di proprietà di privati ma del priorato che, ogni anno, sorteggia chi, pagando una quota, potrà usufruirne d’estate per un periodo più o meno breve. Mentre sorseggiamo caffè, mangiamo dolcetti e salutiamo le persone che ogni tanto fanno capolino nell’alloggio, la conversazione con il priore – che poi scopriremo chiamarsi Pietro Paolo Melis – prosegue in maniera abbastanza casuale, senza però scordare di fare un’incursione nel celebre Carnevale di Mamoiada. A un certo punto salta fuori il fatto che Silvia e Roberta siano avvocati e Pietro Paolo ci fa: «Adesso vi racconto la mia storia». Vista la premessa, un’idea ce la facciamo subito, per cui quando ci dice di essere stato in carcere per quasi 19 anni e di essere uscito un anno fa, io immagino che tra poco ascolterò una storia di “redenzione”: come può, infatti, una mente prendere in considerazione l’ipotesi che una persona possa passare così tanto tempo in carcere per un reato che non ha commesso? Invece è proprio così che sono andate le cose: Pietro Paolo ha trascorso poco meno di 20 anni in una cella per un errore giudiziario. La nostra sorpresa è doppia: sgomento per l’ingiustizia che ha subito e stupore per ritrovarci davanti una persona vittima di una delle peggiori aberrazioni che la nostra società è capace di generare. Tutte e tre abbiamo molto a cuore la questione, ne siamo quasi ossessionate, al punto che mentre i più esultano alla condanna dei vari Stasi, Bossetti, ecc.., io ormai mi ritrovo puntualmente a chiedermi: “E se non fosse stato lui/lei?”.
Pietro Paolo ci spiega di esser stato accusato di aver preso parte a un sequestro (quello di Vanna Licheri, purtroppo mai tornata a casa): contro di lui solo un’intercettazione acquisita all’interno di un’auto non sua e relativa a una conversazione sospetta in cui gli inquirenti sostenevano fosse riconoscibile la sua voce. Sequestro: ecco un altro elemento che destabilizza me e Silvia, in particolare. In questo periodo, infatti, l’argomento ha fatto più volte capolino nelle nostre giornate: prima abbiamo assistito alla presentazione di un libro sull’argomento (“L’emissario” di Paolo Oggianu), che Silvia ha già letto e io sto leggendo ora, poi c’è stata la liberazione di Matteo Boe. E anche se Mamoiada è tristemente legata a sequestri, faide e omertà (come sempre ci ricorda la bellissima canzone omonima dei Tazenda), non è certo con questo suo cupo passato che immaginavamo di fare i conti.
Tuttavia, il turbamento è subito vinto dalla voglia di conoscere la storia di Pietro Paolo Melis, di capire come diavolo abbiano potuto tenere in carcere una persona innocente con prove così deboli a suo carico. Per vedere riconosciuta la sua innocenza, ci racconta, ha dovuto attendere ben cinque sentenze: condannato in primo grado a 30 anni con sentenza confermata in Appello e in Cassazione, ha poi richiesto, tramite il suo avvocato Maria Antonietta Salis (sarda di origine ma trapiantata nella Penisola), la revisione del processo. La Corte d’Appello ha respinto la richiesta, ma fortunatamente la Cassazione ha ribaltato la sentenza e, durante il processo di revisione in Corte d’Appello, grazie a una perizia fonica ottenuta con le nuove tecnologie, il giudice si è convinto della sua innocenza, mettendo così fine al suo calvario. «Ho deciso di fare il priore quest’anno perché ho fatto un voto», ci spiega, mostrandosi, però, tanto riconoscente ai Santi Cosma e Damiano quanto al suo avvocato, che descrive giovane, capace, caparbia e coraggiosa.
Le sorprese per noi non sono finite, però. Pietro Paolo ci racconta di aver scontato la sua ingiusta pena nel carcere di Spoleto, che mi conferma essere abbastanza umano: vi si svolgono, infatti, attività ricreative e i detenuti hanno la possibilità di svolgervi alcuni lavori. Silvia gli chiede allora se ha conosciuto Mario Trudu, di cui ha letto “Tutta la verità – Totu sa beridadi” e lui risponde che sì, sono amici! Io, quindi, gli domando se ha conosciuto anche Carmelo Musumeci e mi dice che anche con lui sono amici: hanno persino scritto insieme un libro di cucina! Di Matteo Boe non ci viene neppure in mente di chiedere, ma ce lo dice lui: sono stati là insieme prima che l’ex primula rossa sarda fosse trasferito a Milano, nel carcere di Opera. Nessuno di noi si lascia andare a giudizi su di lui né a ipotesi su quello che farà ora che è tornato a Lula: l’unico commento che facciamo e che ci vede tutti e quattro concordi è che questa nuova indagine a suo carico, saltata fuori in prossimità del suo rilascio, ha una tempistica che qui definirò eufemisticamente “curiosa”. Pietro Paolo ci mostra anche una foto con Trudu e un servizio de La Nuova Sardegna realizzato in occasione del suo rilascio: a vedere le immagini in cui abbraccia amici e parenti, si emoziona … e noi con lui. Ci colpisce, in particolare, una sua dichiarazione: «Ho il cuore diviso in due perché sono contento di essere tornato a casa, ma lì ho lasciato degli amici». Come dimostra continuamente anche Carmelo con le sue testimonianze, per quanto terribile sia la realtà del carcere, persino lì è possibile creare e coltivare rapporti profondi, sinceri e positivi. Dal servizio apprendiamo altri dettagli: all’epoca dell’arresto Pietro Paolo Melis aveva 37 anni – esattamente la mia età -, aveva un buon lavoro, una fidanzata… «Potevo realizzarmi», dichiara alla telecamera e io commento che aveva ragione: in quegli anni, davvero a quell’età potevi ancora riuscire a costruirti un solido futuro. La fidanzata oggi (e da un pezzo) non c’è più, ma l’azienda fortunatamente sì (mandata avanti durante la prigionia di Pietro Paolo dal fratello minore) e la famiglia pure. Senza questa, senza la determinazione di sua sorella, molto probabilmente lui non ce l’avrebbe fatta: forse sarebbe ancora là dentro o magari si sarebbe tolto la vita come fanno tanti dietro le sbarre, innocenti e colpevoli.
Mentre ascoltiamo lui in video e da viva voce, pensiamo a tante cose: l’angoscia, le spese per avvocati e viaggi, la lontananza, i sogni infranti… Da una persona che ha vissuto una storia simile sarebbe normale aspettarsi rancore, asprezza; invece, in barba alla nomea di vendicativi che hanno i barbaricini, nei toni e nel volto di Pietro Paolo c’è sì amarezza ma non rabbia. Anche quando gli domando se chiederà allo Stato il risarcimento, sorride e dice che sicuramente l’avvocato lo chiederà, ma ci è fin troppo chiaro il sottinteso che, più tardi, andando via, io e le mie amiche espliciteremo: quale cifra potrà mai ripagarlo di ciò che ha perso? Come si può risarcire un uomo cui sono stati tolti gli anni migliori della sua vita? Pietro Paolo lo sa e certamente per questo, senza scordare il passato, ha deciso di vivere il presente con l’approccio più positivo possibile, così da non guastarsi anche quella parte di futuro che ancora gli rimane (e che gli auriamo sia lunga).
Di solito, ogni volta che apprendo di un errore giudiziario, mi infervoro, mi riempio di sdegno e mi risuonano in testa le parole dell’avvocato Sergio Viana, udite durante un convegno sul caso Manuella, nell’ambito del quale fu accusato di omicidio: «Perché il giudice non deve pagare per i suoi errori?» Perché se un paziente muore sotto i ferri, si chiede la testa del chirurgo ancora prima di sapere se ha commesso o meno un errore, mentre se un giudice condanna una persona che, dopo anni e anni di carcere, viene riconosciuta innocente, a pagare è lo Stato, cioè noi? Perché la responsabilità dei giudici resta, di fatto, un tabù, mentre tutti gli altri professionisti sono chiamati a rispondere dei loro errori? Oggi, però, non mi voglio lasciar andare a questi discorsi, che si avvicinano pericolosamente a puzzare di qualunquismo. Non è così che voglio chiudere il racconto di questo incontro speciale, ma piuttosto dicendovi cosa Pietro Paolo mi ha fatto capire. La prima cosa è che non esistono scelte davvero obbligate: un margine di scelta c’è sempre. Per non perdersi basta avere saldi appigli, siano gli affetti, la fede, un forte ideale e/o quel che vi pare: se hai questi, nemmeno la realtà più brutale potrà mai cancellare la tua umanità e quanto di buono hai dentro. La seconda cosa è che il passato – anche il più doloroso – non va certamente dimenticato, ma nemmeno gli si deve permettere di guastare il presente e bruciare il futuro. La terza è una conferma ed è che quando ti stai godendo appieno un momento, dimentichi tutto il resto: che si sta facendo tardi, che avevi dato appuntamento a qualcuno per una certa ora, che potresti condividere sui social l’esperienza che stai vivendo o che potresti scattare una foto ricordo… che infatti di questo incontro io e le mie amiche non abbiamo! Abbiamo, però, la certezza che – foto o no – esperienze come queste non le scordi di sicuro.