Storie di cani per i cani: Setti

 

 

 

 

L’esperienza del canile è un’esperienza che ti graffia l’anima. E ti fa sanguinare. In uno spazio relativamente contenuto i cani sono troppo numerosi. Sono tanti e così diversi fra loro: per razza, per taglia, per indole, per esigenze di coabitazione.

E mostrano bene il loro carattere e il loro ruolo nel gruppo. Da subito. Sistemarli al posto giusto, con la compagnia più confacente, richiede una paziente indagine, oltre che una frequentazione amorevole ed attenta degli ospiti. Tutte le coabitazioni coatte, anche quelle canine, inducono quasi sempre condizionamenti stravolgenti del carattere o enfatizzano aspetti comportamentali estremi, di aggressività o soggezione. E la fatica e conflitti inevitabili nella fluida instabilità della coesistenza delle differenze, a volte è talmente tesa da sfociare in tragedia. È intuibile: vengono da tante storie ed abitudini belle o brutte e ora sono costretti a muoversi ed a vivere da anonimi in un gruppo. E, nel gruppo, necessitati a ritagliarsi un ruolo ed uno spazio, in sicurezza. Moltissimi hanno traumaticamente perso il tu umano al quale affidarsi e a cui regalare fedeltà e presenza. Altri non l’hanno mai avuto. Sono frustrate e negate le relazioni di base equilibranti. Questa sistemazione qui al canile è un palliativo alla negata libertà e alla possibilità di esistere per una funzione, per un compito. E questa che vedo sembra essere l’alternativa unica, inevitabile. La meno peggio: la cattività! La cattività obbligante. Il recinto e il tempo vuoto. Governare queste situazioni è pur sempre problematico e difficile. E devo dire che io sono positivamente sorpresa. Che grande dedizione richiede la loro presenza qui. E quanta cura. E ci sono mani gentili e cuori aperti che qui fanno molto di più di quanto potrebbero o dovrebbero. Senza risparmio di fatica personale. È ammirevole. Peccato che, molto spesso, una diffusa consuetudine amministrativa nel nostro paese mentre pericolosamente e spregiudicatamente scoraggia, mutila e debilita i diritti degli uomini, anche attraverso la consolidata strategia dell’attendismo, raggira, al contempo, i diritti degli animali. Per cui molti dei canili hanno enormi difficoltà a far fronte ai bisogni. Una parte considerevole dell’onere economico è demandato alle iniziative delle associazioni di volontariato!Probabilmente una più generale indifferenza alla questione dei canili, da parte di molte persone, nasce, almeno come motivazione immediata, dalla percezione angosciosa ed indistinta che altri problemi sociali ben più tragici e cronici, ci gravano minacciosamente addosso. Direi che l’oggetto della percezione è reale. Il motivo meno difendibile. In realtà qui sono in gioco anche altre questioni. Questioni di cuore. Anzitutto. E ragioni di responsabilità civile ed ambientale. Mi dirigo verso la gabbia dei soliti di cui mi occupo. Cerco di farne uscire il maggior numero possibile nel tempo a mia disposizione. Immagino la soddisfazione istintiva e viscerale che proveranno nel rimettere le zampe sul terreno; lambire e mangiucchiare l’erba rugiadosa; inseguire gli odori in un universo multiforme e sorprendente; rotolarsi con soddisfazione e correre. Correre, soprattutto. Premono per uscire. Devo fare attenzione: potrebbero sconfinare verso la strada non lontana. Tutti si appressano al cancello impazienti di uscire. Non Setti.

Setti si mantiene discosta. Scodinzola elegantemente e mi guarda.

Quando è il suo turno mi passa davanti con grazia. È signorile. Setti è una setter. Ha un lungo pelo di un caldo grigio picchettato e quando incede le sue orecchie lunghe, che esaltano un profilo di cranio aggraziato, ritmicamente l’accarezzano. Certo non è un pelo molto pulito e disseminati qua e là ci sono grumi antiestetici, ma Setti è bella anche alla sua età. E credo che lei lo sappia. Esce, annusa, assapora, fa i suoi bisogni, calpesta fieramente e con soddisfazione il suo fugace dominio erboso. Poi, repentinamente sazia, si sdraia su un mucchio di sabbia messa nello spiazzale per lavori. Lì nessuno la disturba. Quale sarà il suo sogno? Credo di intuire: “Dimenticami, lasciami ancora qui!” E lo dà a vedere! Dopo che gli altri sono rientrati bisogna fare opera di persuasione con Setti. E non è facile: chiede così poco! Sdraiata sul suo reame di sabbia, con il muso tra zampe, senza sollevare la testa, apre appena un occhio con leggero scotimento delle orecchie; il tempo di un’ammiccata di complicità, e riprende sorniona a sussurrarmi: “Io non sono qui!”. E come sono sollevata se accade che qualcuno mi dice, conoscendola bene, “Lasciala pure … ci sono ancora io … tanto non si muove di lì ….” È poco. Forse non per Setti. Mi sono risparmiata una violenza penosa.

Ma quando è costretta a rientrare senza alternativa, non sfuggo allo sguardo interrogativo di Setti. Cara la mia Setti, signora ritrosa e malinconica. Vado via. Evito di guardare la delusione degli altri rientrati sempre troppo presto nel recinto.

C’è una cosa sconcertante nella mia permanenza al canile: raramente mi è risparmiata un’associazione inconscia con l’orfanotrofio. Per affinità di situazioni e per strategie di sopravvivenza.

Come si somigliano! Come vite parallele. Sarà così anche per i cani?

I loro recinti come esilio protettivo e inevitabile. E le tensioni fra soggetti inversamente proporzionali ai limiti della distanza critica, abbondantemente superata nell’anonimia di massa. Il loro spazio è nei sogni. E i loro sogni sono stracolmi di quei fugaci momenti di libertà che assaporano quando vanno i volontari. Intervalli giocosi che spezzano la forzata immobilità dei giorni.

Pillole di libertà da assaporare fino alla prossima puntata oltre il recinto.

Sono sempre più convinta che la ragione remota che mi avvicina emotivamente agli animali, a tutti gli animali, risieda nella convinzione inconscia di un debito di gratitudine dovuto: nella mia infanzia, all’orfanotrofio, erano proprio loro i miei affidabili amici e confidenti!

Strano? Non tanto! È una condizione umana abbastanza comune! Dappertutto!

Davvero i nostri vissuti, spesso, ci dicono molto più di noi di quanto noi stessi saremmo disposti ad ammettere! Ho letto recentemente sulla stampa che in Giappone risolvono il problema dei randagi con la camera a gas. Non è ufficiale ma le autorità lasciano fare.

E non ho rintracciato proteste di animalisti o anche solo di cittadini comuni.

O di noi cristiani.

E come si potrebbe? Nel nostro paese per molti di noi la questione ecologica è ancora una innocua opzione, nonostante l’evidenza di vere e proprie catastrofi ambientali che ci stanno sotto il naso. Con il risultato che lo squilibrio strutturale ed irreversibile immesso nell’ecosistema è talmente capillare e massivo che, spesso, gli stessi palliativi al disastro si rivelano precari, fragili, isolati. O violenti. Ci sfugge il nesso e l’urgenza pragmatica di un’attenzione all’ambiente che inizia dalla pattumiera e si allarga, in crescendo, all’ecosistema sotto casa, agli stili urbani di organizzazione della vita, fino ad includere, via via, scelte di rispetto e cura per l’intera terra: per i fiumi, il mare, il cielo, gli animali, le piante. Su tutto il globo.

Viviamo una condizione di umano ed ambientale degrado globalizzato, che disorienta ed inquieta per la sua vastità. Avvilisce per la sua gravità. Angoscia per la sua insostenibilità. E un mare di violenza sotterranea cresce e minaccia, dappertutto!

Sono in crisi le relazioni umane.

Cioè il tessuto portante che rende possibile la vivibilità tra cospecifici. Logorato questo tessuto, viene a mancare la possibilità stessa di accogliere un tu diverso. È in crisi l’orientamento essenziale ed esistenziale verso l’altro. Ossia, la vocazione all’interazione che identifica, riconosce, fa esistere l’altro mentre, reciprocamente, rende pienamente ricchi in umanità e senso della vita.

Tutt’intorno a noi, si è liquefatta l’identitaria forza coesiva di un patrimonio valoriale idealmente condiviso e pragmaticamente perseguito. Quel patrimonio generoso e geniale che è stato disposto a fondamenta della casa comunitaria che abitiamo e della quale tutti e ciascuno, strenuamente e storicamente, ne siamo stati, e siamo, artefici e responsabili.

Adesso questa casa rischia di diventare obsoleta e cadente. C’è la frantumazione sociale. La dispersione autarchica e faziosa.

L’incertezza del diritto. Oscurità di futuro.

Ci siamo smarriti nelle nebbie dello scientismo professato come nuova fede.

Nella palude del relativismo culturale ed etico.

Nella strategia del cinismo.

Abbiamo smarrito le coordinate di marcia. E con esse il senso del futuro. E la speranza. E siamo rimasti nudi e fragili, come esposti ad una primordiale fissità.

Questo è disastro esistenziale. Oltre c’è solo la distruttività.

Isolamento. Illusione di autosufficienza. Autodistruttività. Siamo dentro una crisi epocale assolutamente nuova, inedita nel suo genere. Diventarne consapevoli è il primo passo per inventare coralmente l’uscita di sicurezza. Girando attorno in questo generale spaesamento, la mia domanda relativa alla soppressione dei cani randagi giapponesi, diventa inevitabilmente più radicale: in un mondo sempre più sovrappopolato non è pensabile che quella dei cani sia l’avanguardia di una più sottile demolizione del postulato etico della inviolabilità della vita? Dei diritti all’esistenza di qualunque vita?

Si comincia dai cani e poi … poi a chi toccherà?

La Cina e l’India hanno già cominciato da tempo la riduzione, nella specie umana, con altri metodi! La ragnatela che ambiguamente offusca questi segnali che a largo raggio si verificano nel mondo, nel nostro mondo, e che si consumano inosservati sotto i nostri occhi distratti, è in realtà una regia sottile, la storia insegna, che nel perseguire l’eliminazione di inutili, lo fa scivolando sulle nostre coscienze addormentate fino a mietere, alla fine, il consenso di massa.

È semplice! È già successo!

 

 Emanuela Verderosa

 

 

 

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