Sulle vie dei ricordi delle Alpi Giulie

Riceviamo e pubblichiamo:

           

              A mio fratello Ezio, amico e compagno nelle difficoltose salite sulle vette alpine

 

L’estate volgeva alla fine. Il colore sbiadito del verde nella valle dava a capire l’avvici-

narsi dell’autunno con le sue giornate di luce ridotta, spesso accompagnate da venti, conti-

nui e non più caldi, provenienti dai monti  circostanti. Era una sera d’inizio settembre. Il

cielo terso, striato di colori del tramonto, appariva solcato da voli di rondini che, con il loro

garrire, davano il  presagio di una notte ancora mite; ravvivata dal biancore della luna. Las-

sù dai pascoli d’alta quota proveniva la voce insistente dell’ultimo pastore che, con cura e

pazienza, indirizzava le sue bestie verso luoghi lontani dai pericoli del buio.

 

Come ogni anno la fine della calda stagione risvegliava in me il grande desiderio di tor-

nare sulle Alpi; tra quelle montagne, seppure lontane, ma sempre vicine con il pensiero. Vo-

levo rivivere, con attenzione, i molteplici aspetti naturali che esse offrivano solo nelle prime

giornate autunnali: il colore dorato dei larici, l’avvistamento dei camosci, degli stambecchi,

del gallo cedrone ed altro da rendere l’ambiente assai suggestivo. La voglia di evadere era

tanta, a tal punto, che qualche giorno dopo, programmati i miei impegni di lavoro di fa-

miglia e di studio, decisi di partire insieme a mio fratello Ezio. Arrivammo a Tarvisio nel

tardo pomeriggio. Pernottammo e lasciammo i bagagli in una piccola pensione: base di ap-

poggio per le nostre successive ascensioni sulle Alpi Giulie.

 

Sotto quei cieli, spesso coperti di nuvole grigie, ero già stato in anni precedenti. Avevo

condiviso con amici del luogo  i rischi nel salire sulle asperità delle pareti rocciose delle

vette dominanti il sottostante paesaggio di radure e di boschi. Partendo da Sella Nevea il

nostro primo contatto, avendo come riferimento il rifugio Corsi, avvenne con il gruppo del-

lo Jof-Fuart e con quello del Montasio sovrastante il medesimo altipiano e la val Bruna.

C’era stato detto da alcuni alpinisti, di ritorno lungo il sentiero da noi seguito, di prestare

attenzione nell’andare su in alto. In quegli impervi spazi, cosparsi di stelle alpine, era

possibile trovare una mandria di stambecchi reinserita da poco tempo nella zona. Tra essi

c’era un grosso maschio che, per gelosia dei suoi piccoli, poteva rendersi assai pericoloso.

Infatti salendo di quota in prossimità di un torrione calcareo chiamato “ il Campanile

di Villaco”, tra lo scorrere lento dei filari di nebbie, notammo quella bestia. Appena av-

vistatici, seppure a distanza rassicurante per noi, iniziò ad avvicinarsi. Non ci restava che

togliere gli zaini e le corde dalle spalle e sdraiarci su un piccolo spazio coperto da erbe e

da sassi. Si presentò con un atteggiamento non buono, a pochi metri da noi. Per qualche

minuto ci guardò in modo attento: poi, rassicuratosi della nostra indifferenza, tornò indie-

tro per la stessa direzione da cui era venuto.

 

          Dopo alcune salite sulle vette più importanti dei due gruppi facemmo un breve riposo.

Successivamente ci spostammo in direzione del monte Canino. Arrivammo al rifugio

Gilberti quando il giorno volgeva alla fine, lasciando spazio alla notte che, con le sue

tenebre, avvolgeva tutto in un immane silenzio. Era l’ora in cui l’aria tra le rocce sembrava

come immobile. In alto agli ultimi bagliori del sole, che scompariva in lontananza,

brillavano i cristalli di neve indurita del residuo vecchio ghiacciaio. Laggiù, verso

l’Austria, la volta  celeste si era accesa di colori evanescenti . Mentre dalle alture del Mon-

tasio diffondeva l’eco dei rintocchi, lenti e cadenzati, di una piccola campana. Erano quelli

di una sperduta chiesetta alpina dislocata tra le praterie della valle Raccolana.

 

In quell’attimo, come già mi era successo altre volte, sentivo la montagna assai vicina

con la sua quiete. Sembrava vederti come un figlio e dirti in segreto qualcosa. Raccon-

tarti, seppure senza voce, il suo passato la sua storia la sua eternità. Sempre vissuta in soli-

tudine tra continue e fredde bufere più volte da me affrontate e che, forse nel tempo, ave-

vano delineato il mio carattere: il mio modo di essere. Proprio in quegli istanti si avvverti-

va la convinzione di appartenere ad un immenso creato di perfezione legato, giornalmente,

a leggi e moti perpetui che non erano assoggettabili al volere  dell’uomo.

 

Questo magico e inconsueto momento fu accompagnato dalle tenui e toccanti no-

te provenienti dal rifugio del canto “La Montanara”: seguite da quelle di un altro canto

“Benia Calastoria”. Non c’era cosa più significativa per un alpinista del vivere, seppure

brevemente, una simile coincidenza di immagini così particolari seguite da voci che into-

navano i versi più rappresentativi dei canti di montagna.

 

Richiamato dal sorprendente momento mi avvicinai a quel gruppo di persone. Erano

venute da Udine per salire, l’indomani mattina come noi, sulla vetta del monte Canino.

Nell’intonare, in modo armonioso, la seconda canzone mi accorsi che uno di loro, dal vol-

to bruno e provato dagli anni, cercava di cantare ma non ci  riusciva. Aveva gli occhi ba-

gnati di lacrime: uno sguardo assente e sofferente. Qualcuno della comitiva mi confidò

che quella persona non appena completato il servizio militare in quei luoghi, tra le file dei

ragazzi della brigata alpina Julia, era partito emigrante in Argentina. Pur essendo passa-

ti tanti anni, pur avendo con sé la famiglia, non riusciva ancora a cancellare dalla mente

il forte legame con la gente della sua terra nativa; con i suoi compagni di gioventù, con

le sue indimenticabili montagne.

 

Tornava ogni anno tra le sue Alpi Giulie. Guardando quell’uomo ebbi un momento di

intensa commozione. Non lo conoscevo, ma lo salutai come fosse un amico. Immaginavo

la sua continua e provata sofferenza vivendo in una terra molto lontana dal suo Friuli.

I versi di quella canzone gli erano stati dedicati dai  suoi vecchi amici. Avevano, probabil-

mente, risvegliato in lui il grande desiderio di tornare per sempre. Cancellato, nello stesso

tempo, dalla consapevolezza che ciò non avrebbe potuto più avverarsi. L’indomani

mattina, assai presto, accompagnati da un debole vento di nord-est, salimmo sulla storica

montagna. Osservammo le trincee della guerra (1915-18) immaginando gli enormi

sacrifici e sofferenze sopportate da coloro che, pur non volendo, avevano dovuto combat-

tere tra le intemperie continue ed avverse.

 

Ci spostammo fino a Sella Preva. Poi, tornammo in paese. Dopo un riposante sonno, ri-

forniti gli zaini di scorte alimentari, ci trasferimmo con un mezzo pubblico, attraversando

il passo del Predil, nella valle di Trenta. La valle che ci portava, seguendo il percorso del

fiume Isonzo, al cospetto di un altro colosso montuoso: il Triglav, in territorio sloveno.

La valle di Trenta: terra di nessuno. Terra dimenticata dal progresso e dal modernità

dove le poche persone rimaste, di età assai avanzata, offrivano ai passanti la propria

ospitalità ed amicizia in un vecchio museo pastorizio. Facevano ciò per sconfiggere la

tristezza di una continua e depressiva solitudine. Una donna ci disse che i giovani erano

andati in luoghi lontani in cerca di lavoro e di una vita diversa. Avevano lasciato i propri

genitori nel pianto e nell’attesa di un loro ritorno che, sicuramente, non ci sarebbe mai

stato, ponendo fine ad un rinnovo generazionale di quei piccoli paesi.

Quella gente, così umile e tanto indifesa, parlava bene la nostra lingua. Abitava in un

lembo di terra che era stato, in tempi  precedenti, territorio italiano. Poi, gli eventi storici

avevano sancito il passaggio alla Jugoslavia. Eravamo in un piccolo borgo alpino dal

nome “Na Logu”. Era adagiato su un pianoro di verde smeraldo: circondato da muraglie

di pietre per la difesa dagli attacchi notturni degli orsi. Caratterizzato dall’ assenza di

rumori all’infuori di quello dovuto allo scorrere lento delle acque del fiume, che si portava

verso Caporetto e il monte Nero. Dal cielo azzurro, dall’aspetto autunnale, provenivano i

versi di un solitario rapace che sorvolava i tetti delle case: alcune con le finestre chiuse.

Io ed  Ezio avevamo un dislivello di duemila metri da superare per arrivare al rifugio

“Trzaska-Koca “, situato sulla forcella Dolic, che ci avrebbe ospitato per due notti. Quasi

dispiaciuti di dover lasciare quel posto e i suoi  ospitali abitanti decidemmo, appena

consumato un pasto leggero, di partire. Sapevamo che il tratto finale di quel sentiero

avremmo dovuto superarlo, a causa del ritardo dovuto alla riduzione delle forze, con

le lampade frontali. Speravamo di non imbatterci con le nebbie formatesi con la diminuzio-

ne della temperatura con l’altitudine. Nell’andare, raggiungemmo alcuni alpinisti venuti da

Belluno con i quali arrivammo alla piccola dimora sperduta tra le ombre dell’oscurità. In

essa pensavamo di riposare dentro un sacco a pelo in un angolo del soffitto. Ciò non fu

possibile a causa del vociare, fino a tarda ora, nel sottostante locale di ristoro. All’alba se-

guente, tra i primi tremolanti chiarori, insieme ai nostri amici italiani salimmo sulla vetta.

Superammo passaggi di media difficoltà. Dall’alto si godeva una visuale spettacolare. Lo

sguardo si perdeva lontano fino a Lubiana, rincompensando le fatiche precedenti.

Fatta una breve ricognizione andammo sulla seconda vetta più importante del Triglav.

Salutati gli alpinisti bellunesi, scendemmo nella valle di Vrata: per giungere, dopo un lungo

percorso, nell’abitato di “Kranjsca-Gora”. Eravamo molto stanchi ed assonnati. Nonostante

ciò bevemmo, in fretta,  nel primo locale avvistato, un thè caldo alle prugne cercando di pren-

dere, nel poco tempo rimasto a disposizione, l’ultimo mezzo di collegamento con Tarvisio.

Del nostro programma, tracciato alla partenza, restava  un’ultima salita assai impegnativa

da affrontare: la parete nord-est del Mangart. Trascorsa una giornata di sosta e la notte in

quella cittadina di confine, allo spuntare del nuovo mattino ci portammo alla base di quel

muro di roccia passando per i laghetti di Fusine. Le rive erano cosparse di candide brine.

Ricordo  che al momento del fissaggio delle corde su quelle pietre ricoperte da un velo

di ghiaccio, dovuto al freddo delle ore notturne, avevo un noioso mal di testa. Volevo rinun-

ciare alla difficoltosa ascesa. Tale decisione veniva rafforzata dalla vista, in un angolo del

luogo, di una piccola targa riportante i nomi di un nonno e del suo giovane nipote caduti

durante la scalata. Furono Ezio e l’altro compagno di cordata di Fusine che, con insistenza,

riuscirono a convincermi e quindi a partire facendo la prima sicurezza con i moschettoni.

Oltre al malessere ero pure consapevole che la non partecipazione mi avrebbe creato un di-

spiacere che non avrei dimenticato facilmente. Prima di mezzogiorno, avendo alle spalle

vari metri di vuoto, ci trovammo sulla parte culminante dell’emergente montagna. Era

contrassegnata da un cippo di confine, annerito dal tempo, con lo stato slavo. Restammo

a guardare fino a quando un banco di nebbia, transitante lentamente, cancellò dagli occhi

ogni immagine.

 

Tornammo alla base facendo un lungo giro. Nel mentre gli altri si liberavano di tutto il

necessario utilizzato per la salita su quello strapiombo roccioso, a poca distanza da loro,

io osservavo l’imponente parete. Era riscaldata dal tepore di una giornata serena. A piccoli ed

impercettibili passi, per non disturbare, si avvicinò mio fratello. Per un attimo mi guardò

con gli occhi ancora madidi di sudore. Poi, stringendomi la mano, mi disse: ”Sono molto

orgoglioso di aver segnato ancora una volta , insieme a te, sulle vie dei ricordi di queste

montagne, la continuazione della nostra storia alpinistica. Una storia che è stata di for-

mazione di vita e di unione per noi e che racconteremo, un giorno lontano, a quanti inizie-

ranno, con sacrificio e volontà, a segnare i loro passi su questi sentieri del nostro passato”.

 

Sapevo che i ricordi non tramontavano mai e che tanti dei nostri segreti erano racchiusi

tra quegli ambienti. Legati ad una parte di vita trascorsa alla ricerca di una natura diversa

tra angoli e spazi remoti dei monti europei. Sapevo che della conoscenza delle montagne, e

dello studio delle teorie complesse della fisica, avevo fatto una scelta di vita. Cammina-

vamo tra le vette di un mondo solitario: i cui eterni silenzi spingevano il pensiero ad una

profonda meditazione sui tanti misteri della nostra esistenza. Mi rendevo conto di

avere appagato un grande desiderio: ma, al contempo, avvertivo un senso di rimpianto

del periodo precedente alla salita. Avevo esaudito un altro sogno di lunga attesa. Un sogno

che mi aveva accompagnato per giorni e per notti e che difficilmente avrei potuto rivivere

alla stessa maniera; con lo stesso entusiasmo nel lento e continuo, e a volte sofferente,

cammino della vita.

Angelo Fusari


 

Angelo Fusari è nato a Tornimparte, comune a pochi chilometri dall’Aquila, dove risiede. Laureato in Fisica, ha lavorato in un’azienda elettronica. Appassionato di montagna e discreto alpinista, conta oltre venti anni di attività, maturata sulle cime più alte delle Alpi italiane, francesi, svizzere ed austriache. Oggi ha di molto ridotto gli impegni in montagna, preso dagli studi nel campo della fisica. Ha però da qualche tempo iniziato a raccontare, sulla scorta dei ricordi e dei suoi appunti alpinistici, le esperienze vissute sulle cime delle Alpi e le emozioni d’un uomo di montagna.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *