I trapianti di cuore e fegato dagli albori ai nostri giorni
di Marcella Onnis
Nel corso della cerimonia inaugurale del 41° congresso nazionale della Società italiana trapianti d’organo (SITO), organizzato a Cagliari dal 9 all’11 novembre 2017, è stata riservata una sessione per omaggiare i chirurghi Christiaan Barnard e Thomas Starzl, cui si devono rispettivamente il primo trapianto di cuore e di fegato al mondo. Tale omaggio è stato, però, anche occasione per illustrare gli scenari futuri per queste due attività.
Cadono proprio quest’anno i 50 anni del primo trapianto di cuore, realizzato nella notte tra il 2 e il 3 dicembre 1967. Già nei primi mesi di quell’anno – ha ricordato il prof. Giuseppe Faggian (Direttore della Cardiochirurgia dell’Azienda ospedaliera di Verona) – il chirurgo russo Vladimir Petrovič Demikhov aveva eseguito un trapianto di cuore animale, prevedendo entro un anno il primo trapianto di cuore tra umani. Il sudafricano Christiaan Barnard studiò anche le sue tecniche, tuttavia, ha affermato Faggian, è la sua scuola di provenienza, quella americana, che «comunque, rimane la più conosciuta». Il relatore si è premurato di tributare la dovuta memoria a ognuno dei protagonisti di questa epocale svolta, a partire da Denise Darvall, che morendo a soli 25 anni divenne la prima donatrice di cuore: a lei, ha affermato Faggian, «va il primo ringraziamento, così come ai rianimatori che ebbero l’ingrato compito di chiedere il consenso ai familiari».
Oltre alle difficoltà tecniche, Barnard (nella foto) e la sua équipe dovettero affrontare molte resistenze morali, hanno ricordato sia Faggian che Vassilios Papalois, presidente eletto dell’ESOT, Società europea dei trapianti d’organi: a differenza degli altri organi, infatti, al cuore, considerato centro dei sentimenti, è sempre stata riconosciuta particolare importanza. Inoltre, ha ricordato Papalois, ci fu chi accusò Barnard e la sua équipe di essere degli assassini per via del fatto che il trapianto fu realizzato grazie a un donatore in morte circolatoria. Ancora, infatti, non si parlava di morte cerebrale: la definizione del concetto di morte fu fornita dal Ministero della salute statunitense solo negli anni ’80, ha precisato Faggian, mostrando poi un video (al quale ne sono seguiti altri, tra cui delle vere rarità) in cui Barnard, poco tempo dopo il primo trapianto di cuore, introduceva già il concetto di danno cerebrale permanente «di cui nessuno aveva mai parlato prima». Sempre in difesa della propria scelta, nella stessa intervista il celebre chirurgo dichiarò che «un medico che può fare un trapianto ha l’obbligo morale di intervenire». Il relatore ha poi ricordato che Barnand fu anche il primo ad affermare che per eseguire i trapianti fossero necessarie due équipe: una per prelevare l’organo, l’altra per trapiantarlo. C’è, inoltre, un mistero che aleggia su questa incredibile conquista, legato al fatto che il trapianto fu eseguito in Sud Africa negli anni dell’apartheid: il prelievo del cuore potrebbe non essere stato eseguito da Marius Barnard, fratello di Christiaan, come dichiarato in sede ufficiale, bensì da Hamilton Naki, infermiere membro dell’équipe, il quale, però, in quanto di pelle nera, per via delle razziste leggi vigenti non avrebbe potuto partecipare all’intervento.
Il primo trapianto di cuore, purtroppo, non ebbe un esito molto fortunato poiché il paziente morì 18 giorni dopo per un’infezione. Anche i pazienti successivamente trapiantati non ebbero buona sorte e il tasso di mortalità si rivelò alto a causa dell’eccessiva aggressività dei farmaci immunosoppressori. Ciò portò, negli anni Settanta, a interrompere l’attività di trapianto di cuore fino al 1983 quando, con l’introduzione della ciclosporina, fu possibile ridurre il tasso di mortalità e quindi aumentare l’aspettativa di vita dei pazienti trapiantati di cuore. Anche per tale ragione, nonostante a Padova si pensasse di avviare quest’attività già alla fine degli anni Settanta, il primo trapianto di cuore in Italia avvenne solo nel novembre del 1985. In quel mese, alcuni ospedali, tra cui quello di Padova, furono autorizzati con decreto ministeriale ad eseguire i trapianti di cuore. Il primo intervento fu realizzato nella città veneta dall’équipe del prof. Vincenzo Gallucci (di cui faceva parte anche Faggian) nella notte tra il 13 e il 14 novembre, grazie a una donazione avvenuta a Treviso. La paziente sopravvisse diversi anni e morì purtroppo a causa dell’epatite C, contratta con una trasfusione.
Riguardo al futuro dei trapianti di cuore, Faggian ha ricordato che la ricerca sta facendo progressi nel campo della preservazione degli organi così da aumentare il tempo di attesa massimo tra prelievo e trapianto, notoriamente breve per il cuore. Altro campo in evoluzione è quello costituito dall’assistenza meccanica, in particolare dalla VAD (ventricolo artificiale), di cui ha ampiamente parlato Gino Gerosa, Direttore della Cardiochirurgia dell’Azienda ospedaliera di Padova. Gerosa ha subito premesso che «il trapianto di cuore resta la miglior terapia per i pazienti con scompenso refrattario non solo in termini di mortalità ma anche di qualità di vita». Il ricorso ad altre terapie come la VAD, però, si rende necessario per via della sempre minor disponibilità di cuori, ha spiegato il relatore, mostrando come, negli ultimi anni, il calo del numero di trapianti eseguiti si sia verificato non solo in Italia ma a livello mondiale. A questo calo corrisponde, purtroppo, un preoccupante tasso di mortalità in lista di attesa, nel nostro Paese pari al 6%: «Dobbiamo bloccare questa mortalità», ha affermato Gerosa, per poi annunciare che «nel 2018 ci saranno più di mille impianti di VAD in Italia». Il ventricolo artificiale, tuttavia, a suo parere non è un surrogato né un’alternativa al trapianto perché «il programma VAD e il programma trapianti sono estremamente sinergici»: la VAD può, infatti, fare da “ponte” per assicurare che il paziente sopravviva fino al trapianto o essere un sostituto di quest’ultimo nei casi in cui vi siano controindicazioni per realizzarlo. In particolare, per il relatore la VAD è indicata in caso di insufficienza del ventricolo sinistro, mentre trapianto o cuore artificiale totale sono la terapia ottimale quando l’insufficienza riguarda entrambi i ventricoli. Affinché la VAD si riveli benefica per il paziente, però, secondo Gerosa sono fondamentali due aspetti: la selezione del paziente e la tempistica (timing) dell’impianto. In particolare, ha spiegato, più tardivo è l’impianto, più aumenta il rischio di dover supportare anche il ventricolo destro, oltre a quello sinistro; anticipando, invece, l’impianto, si possono ottenere migliori risultati. Gerosa ha poi illustrato le ragioni per cui la VAD non garantisce la stessa qualità di vita del trapianto, tra le quali la rumorosità e l’ingombro dei dispositivi. Tuttavia, ha chiarito, anche su questi aspetti la ricerca scientifica ha fatto passi da gigante: per esempio, il peso del dispositivo interno è sceso da 1,5 kg a 90 grammi. Sono stati, inoltre, ottimizzate anche altre caratteristiche che rendevano la VAD, oltre che scomoda, possibile fonte di infezioni.
Come ricordato all’inizio, il primo trapianto di fegato fu, invece, realizzato nel 1963 grazie a Thomas Starzl (nella foto) che per il prof. Umberto Cillo, Presidente della SITO e Direttore della Chirurgia epatobiliare e dei trapianti epatici dell’Azienda ospedaliera di Padova, può considerarsi «il più grande trapiantologo al mondo» perché mostrò di avere «una grandissima visione, una capacità di interpretare il futuro e di traslarlo in una realtà concreta», rimanendo, però, «un grande chirurgo-scienziato che mai dimenticò la fisiologia, la biologia…». Caratteristiche per cui, ha aggiunto, «continua a essere d’ispirazione per tanti di noi». Altro prezioso contributo per ricordare questo grande medico l’ha fornito Luigi Rainero Fassati, Dirigente medico della Chirurgia generale dell’Ospedale San Carlo Borromeo di Milano, che tradusse in Italia il libro di Starzl “The puzzle people: memoirs of a transplant surgeon” (in Italia “Ai limiti del possibile. Memorie di un chirurgo di trapianti”). Fassati ha rimarcato come il suo stile fosse «asciutto e senza fronzoli», capace di raccontare senza sentimentalismo, ma lasciando comunque trasparire l’emozione, anche eventi drammatici quale il primo trapianto di fegato che Starzl eseguì su un bimbo di 3 anni, purtroppo senza un esito felice. Sulla visione lungimirante e pragmatica di Starzl richiamata da Cillo ha, invece, incentrato il suo intervento Jan Lerut (in servizio presso la Clinica universitaria Saint-Luc di Bruxelles): «La sua missione era trasformare il presente, scoprire il futuro». «Mi disse una volta che voleva fare qualcosa mai fatto prima nella storia dell’umanità» ha poi raccontato il relatore, spiegando che davvero ci riuscì perché rese possibile un’operazione che all’epoca sembrava impossibile. Gli esordi, ha ricordato, furono, infatti, drammatici: inizialmente erano necessarie 100 ore di intervento con 100 unità di sangue a fronte di un tasso di mortalità del 100%. C’erano, inoltre, altri problemi da risolvere come la carenza di organi e gli effetti collaterali sui pazienti trapiantati, in particolare per le cure cortisoniche, che potevano anche sfigurarne i volti. La sua determinazione, però, gli permise, in particolare studiando i singoli casi di decessi post-intervento, di superare gran parte di questi limiti e di abbassare il tasso di mortalità.