UN IMPEGNO ETICO CHE MERITEREBBE ANDARE OLTRE…
La costante sofferenza (dolore fisico e psichico) sia pur in assenza di diagnosi, se non presa in considerazione sino all’ultimo tentativo, è disumano e inaccettabile…
di Ernesto Bodini (giornalista scientifico)
Premetto subito che non ho nulla da insegnare ad alcuno, soprattutto a cattedratici, ancorché in ambito medico. Ma nel contempo mi preme precisare che da molto tempo, oltre a gravitare nel campo della Sanità e in materie mediche a scopo divulgativo, sono socialmente a contatto con molte persone che a volte mi confidano il loro malesseri e le difficoltà nel superare una determinata esperienza in merito alla salute cagionevole, e a volte apparentemente di difficile (se non impossibile) soluzione. In particolare mi riferisco a quei casi che affetti contemporaneamente da più disturbi e/o patologie (sindrome) non riescono ad avere una diagnosi, sia pur essendosi sottoposti ripetutamente ad una serie di esami ematici e strumentali anche invasivi e, cosa anche non da poco, ricorrendo alla sanità privata con conseguenti notevoli esborsi, e in casi più limitati avvalendosi anche del SSN. E su questo aspetto vorrei soffermarmi ponendomi questa domanda: se un paziente soffre da anni e costantemente a causa di più disturbi, ed essendo stato visitato individualmente da più specialisti e sottoposto ad indagini diagnostiche, si sente dire più o meno da tutti che il suo caso non è noto e apparentemente non c’è soluzione, cosa può dedurre e cosa può fare il “malcapitato” paziente? Ammesso che determinate sindromi (non note e di cui si ignora la causa), non possono essere trattabili in alcun modo nonostante svariati proposte-tentativi terapeutici senza alcun esito, fino a che punto è lecito “abbandonarlo” a sé stesso? Il fatto che nessun clinico interpellato sia in grado (per i misteri dell’organismo umano e per i limiti della scienza medica) di esprimere ulteriori ipotesi diagnostiche e/o proposte terapeutiche o pseudo tali, a mio modesto avviso credo che questi pazienti necessitino di una ulteriore presa in carico, ossia che possano “invocare” un medico specialista che abbia conosciuto il loro caso sin dall’inizio, il quale si impegni ad individuare colleghi di altre specialità per una riunione congiunta, affinché ognuno possa esprimere di fronte ai colleghi la propria opinione, quindi una serie di ipotesi diagnostica sino alla più totale esclusione. Questo tipo di “intraprendenza” non mi risulta sia mai stata attuata (o comunque a macchia di leopardo) da alcuno e, il non darne seguito, equivale a lasciare (suo malgrado) il paziente al proprio destino. Come tutti sanno, ormai, la mia dedizione nel divulgare il lavoro dei medici di qualunque valenza e/o appartenenza, è sempre stata imparziale mettendo in risalto le loro potenzialità professionali e a volte anche la loro disponibilità extra-istituzionale, ma ciò non significa che non si debba ottenere l’attenzione di un clinico che sia “dotato” di maggior intraprendenza e dedizione coriacea (è il caso dirlo), al fine di individuare e coinvolgere colleghi (anche fuori dal proprio territorio) al fine di studiare insieme questi casi clinici che sino a quel momento hanno prodotto come responso il fatidico: «Un caso come il vostro non mi è mai capitato… pertanto non vedo alternative di ipotesi diagnostiche ulteriori». A questo punto i pazienti “sfortunati” cadono nello sconforto, se non anche nella depressione con eventuali e immaginabili conseguenze per se stessi e per la loro famiglia… Se ciò avviene mi sentirei, senza far lezione o ammenda ad alcuno, di rinverdire il concetto di etica del quale sono ormai tutti indottrinati, tant’è che nella stragrande maggioranza dei casi assolvono il loro compito come esempio dato dal sommo Ippocrate. Ma tornando ai casi limite, ossia a quei pazienti che continuamente nel tempo sono privi di una diagnosi, e costantemente in stato di sofferenza in quanto nessun farmaco risulta essere lenitivo, a mio modesto parere ben si inserisce il concetto di Bioetica che, come precisano gli esperti, la si può intendere come “qualità” del comportamento clinico in riferimento alla dimensione umana della medicina, e anche come esigenza di “aumentare” il livello di sensibilità morale rispetto ai pericoli della cosiddetta medicina scientifica. Ora, se il comportamento etico di un medico è osservato rigorosamente anche nei confronti di pazienti che soffrono nonostante le terapie, ma hanno avuto una diagnosi, nei confronti di pazienti che soffrono costantemente ma sono senza una diagnosi, non sarebbe il caso di “rinforzare” il concetto etico finalizzato ad estendere l’indagine clinica in collaborazione con altri colleghi nel tentativo, almeno, di dare quel conforto ai pazienti confermando loro che uno staff “’improvvisato” ha provato a “scandagliare” il loro misterioso corpo sino a sfidare i limiti del sapere umano e della scienza? Credo che però non si tratti solo di un problema bioetico, ma come precisava un illustre Cattedratico, anche clinico, squisitamente individuale, che sfugge a modelli prestabiliti e a generalizzazioni statistiche e che riguarda comportamenti che non possono essere insegnati bensì acquisiti giorno dopo giorno con il contatto umano, frequente e approfondito. Ciò significa, o significherebbe, che i pazienti difficili da diagnosticare, hanno lo stesso diritto di essere osservati, scrutati e valutati sino a quando non sia prima il loro organismo ad arrendersi alla intelligente “cocciutaggine” del team di medici che ha creduto e ritenuto andare oltre la loro conoscenza e le loro possibilità. Un’ultima considerazione: rimanere senza una diagnosi dal punto di vista umano per il paziente è a dir poco frustrante, riuscire a dare un nome a quei sintomi consente di avere una spiegazione, contribuisce inoltre a far luce sul meccanismo di una determinata patologia. Per tutte queste ragioni sarebbe opportuno accogliere questi pazienti che, oltre ad una diagnosi, chiedono di non soffrire anche a causa del poco interesse…