UN VIRUS PANDEMICO “ALLEATO” AL BURNOUT
Fine di una cruda esperienza per medici, infermieri e operatori sanitari in genere, che hanno dovuto lottare contro due potenti nemici: il SARS-Cov-2 e il Burnout
di Ernesto Bodini (giornalista scientifico)
È sempre increscioso dover leggere elenchi in cui compaiono nomi e date quando si riferiscono ai nostri simili che, per una ragione o l’altra, ci hanno lasciato prematuramente. E non affermo ciò con retorica se quell’elenco riguarda i decessi per causa dell’pandemia Covid-19, in particolare gli operatori sanitari gran parte dei quali caduti “sul campo, ossia durante il loro lavoro, oltre ai colleghi già in pensione ma anch’essi in aiuto all’emergenza. In Italia l’elenco è assai lungo: ben oltre 300. Hanno affrontato un “nemico” del quale poco o nulla conoscevano, inizialmente disorientati sia dal punto di vista organizzativo e sia per la “lenta” impostazione di un appropriato protocollo terapeutico, avendo come obiettivo quello di autotutelarsi e quindi di curare e mantenere in vita più pazienti possibili, molti dei quali in condizioni particolarmente estreme. E, come se non bastasse, hanno dovuto far fronte anche alle difficili (se non a volte anche impossibili) relazioni con i familiari dei ricoverati, che non potevano o non hanno potuto dare l’ultimo saluto ai loro congiunti. Ma con il passare del tempo, con l’incremento dei ricoverati (a volte lontani dalla propria residenza) il loro ruolo di clinici combattuti tra l’etica e le varie difficoltà insormontabili, come appunto il rischio costante di contrarre il virus, un altro avversario si poneva innanzi sia a loro medici che ai colleghi infermieri e operatori sanitari in genere: il burnout. Un evento per certi versi subdolo ma consistente. «Si tratta – come spiega su YouTube lo psichiatra Valerio Rosso – di una condizione di disagio mentale che si presenta quando lo stress connesso al lavoro che si sta facendo non è più gestibile, e soverchia la persona che lo subisce in mancanza, e questo è il punto, di possibilità di cambiare le cose… Questa condizione di disagio può colpire indifferentemente chi lavora in fabbrica, l’uomo d’affari che opera con una multinazionale, il postino o, per l’appunto, i medici e gli operatori sanitari in genere». Insomma, per dirla in modo popolare, un dramma nel dramma, il cui approfondimento meriterebbe ulteriori considerazioni fra addetti ai lavori, specie quelli che hanno vissuto questa esperienza. Non credo che ai tempi di Ippocrate e Galeno sussistesse questa realtà ma è con il passare dei secoli, dell’intensità delle relazioni e di conseguenza delle moltissime patologie che hanno investito (e investono) l’uomo che l’evento burnout si è impadronito in diversi modi, anche perché nel medico e nell’operatore coscienzioso la sensibilità la fa da padrone… come è forse giusto che sia. Come tutte le precedenti epidemie anche questa ha messo a dura prova tutti, ma ben poco o comunque non a sufficienza (a mio avviso) si sono approfonditi i giusti confronti; mentre invece si è dato largo censo a dibattiti e ipotesi, vociferate a destra e a manca e intanto… la gente soffriva e moriva, e con essa i sudori e le ansie si impadronivano di quei camici sempre più sfiniti tanto da soccombere anch’essi, in un senso o nell’altro. Oggi non rimane che la possibilità di fare qualche riflessione in più rispetto a ieri, e questo può insegnare qualcosa? Forse, ma quando si è di fronte ad eventi come le pandemie, io credo che si tratta di potenziare un altro tipo di lotta: quello della ricerca che però non deve onorare solo i profitti, ma anche individuare ogni possibile miglioria organizzativa e gestionale affinché in primis deve imperare la salute della collettività… anche se chi investe nella Ricerca, oggi più che mai, solitamente non è un filantropo. (Nota: La sindrome respiratoria acuta grave Coronavirus-2 (SARS-CoV-2) è il nome dato al nuovo coronavirus del 2019, COVID-19 è il nome dato alla malattia associata al virus).
I casi degli americani Lorna Breen e John Mondello
Come tutti gli eventi in cui la sofferenza umana chiama al dovere i sanitari, non mancano i casi oltremodo “strazianti”, ossia operatori che allo stremo delle loro forze fisiche e mentali, non hanno retto il “ritmo e il peso” del loro ruolo tanto da togliersi la vita. Per citare qualche caso di oltre confine, a New York in piena era pandemica John Mondello, un paramedico di 23 anni che ha assistito sulle ambulanze molti pazienti in fin di vita, sconvolto non ha retto e si è suicidato con la pistola del padre, un poliziotto in pensione. Ulteriore scalpore ha suscitato il suicidio (il 26 aprile 2020) di Lorna Breen, medico anestesista di 49 anni, che era a capo della Rianimazione dell’ospedale Allen Presbyterian, a nord di Manhattan. Una giovane brillante, piena di vitalità e determinata nel suo lavoro, ancor più con l’arrivo del virus che ha quasi decimato il suo ospedale: 170 dei 200 posti letto. Questa anestesista ha affrontato, come tutti i suoi colleghi, la fiumana di malati in condizioni spesso disperate: turni massacranti, la costante paura di infettarsi e, una volta uscita dall’incubo delle corsie, la necessità di isolarsi per non rischiare di contagiare gli altri… Quindi, la solitudine (e magari anche il burnout), sfociata nel suicidio, una decisione “rafforzata” dalla preoccupazione sia di non riuscire a soddisfare le aspettative della popolazione nella gestione dell’emergenza, e sia nella difficoltà della ripresa dopo il picco del contagio.
Dopo aver contratto il virus, raccontano le cronache, la dott.ssa Breen si era ristabilita, aveva cercato di tornare al lavoro ma l’ospedale l’aveva rimandata a casa. Ma ciò non è bastato… Così è stata ricordata dal New York-Presbyterian Allen Hospital e dalla Columbia University: «La dottoressa Breen è un eroe che ha portato i più alti ideali della Medicina nell’impegnativo fronte del Dipartimento di Emergenza. Il nostro obiettivo oggi è fornire supporto alla sua famiglia, agli amici e ai colleghi, mentre affrontano questa notizia durante quello che è già un momento straordinariamente difficile». Inevitabili sono state le carenze di sistemi sanitari sia in America che in Europa, a causa (in parte) delle quali abbiamo visto il corpus sanitario in prima linea e dare il meglio di sé, pur considerando le relative difficoltà oggettive; ma ciò non toglie che almeno i suicidi si potessero evitare o prevedere specie se subentra quella “perdita di senso” e magari la solitudine che, egoisticamente (per noi), il medico non dovrebbe mai conoscere… Ma purtroppo, come sosteneva G. Bernard Shaw (1856-1950): «La cosa più tragica in questo mondo è un dottore ammalato».