Viaggio attraverso la storia delle parole: Cultura
Riceviamo e pubblichiamo:
Oggi vorrei parlarvi di cultura. Sarà bene precisare – anche se lo vado ripetendo spesso – che parlerò della parola “cultura”. Sperando che ciò possa servire ai lettori a capire sempre meglio che cosa sia esattamente cultura, fedele al compito che mi sono assegnato: di far capire che cosa intendo quando parlo di trasparenza linguistica.
Parlerò quindi di “cultura”, come di un lemma del vocabolario. Un vocabolario particolare in cui i lemmi invece di essere presentati mediante essenziali definizioni, vengono raccontati attraverso la storia stessa della parola. A partire (o risalendo fino a …) dalla forma più antica: l’ètimo.
Quante parole tecniche! Tutte “parole dotte”: lemma, ètimo.
A proposito di lemma, per chi non trova familiare l’uso di questa parola devo dire – in anticipo – che si chiama “lemma” ogni voce del vocabolario, considerata come elemento unitario del “lessico” (insieme dei lemmi). E significa “cosa detta (o pensata)”; quindi, parola.
Etimologicamente – vedete che qui ritorna etimo anche nell’avverbio? – essa deriva dalla radice greca: leg/log, di cui sono formati, nella lingua greca, il verbo “légō” (dico) e il sostantivo “lógos” (discorso, pensiero, parola), tante volte richiamati in queste pagine. Insieme ad altre parole; come lettura, leggenda, logica, nonché i suffissi “-logìa” e “-logo”, così diffusi.
Il recupero dei tratti semantici attraverso l’analisi della struttura morfologica della parola lemma [leg + mat = lemma] indica generalmente una cosa concreta, una “sostanza”, che prende significato dall’azione indicata dal verbo. Quindi: lego = dico; lemma = cosa che si dice. Di queste parole ce ne sono tante nella lingua italiana – e in tutte le lingue europee – e sono quelle che terminano con la sillaba “ma” (dal suffisso originario [–mat]). E sono tutte maschili, perché derivate da parole greche, che erano tutte neutre. Vedi: dilemma, teorema, problema, idioma, tema, patema, ecc. Così anche lemma.
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E veniamo al soggetto del giorno. Cultura e coltura sono varianti di un’unica parola. Alla stessa famiglia appartengono cólto e culto, e tante altre, tutte collegate al verbo latino “colo/còlere” (abitare – coltivare – servire, radicare tradizioni, venerare). Oltre al suffisso -cola (es.: agri-cola), che aggiunge il significato di abitante alle parole alle quali si applica.
Forse ne ho accennato a proposito di “colono”. Parola anch’essa, insieme a “cultura” e a “culto”, etimologicamente collegata al verbo latino “colo” .
Ad ogni modo se la “cultura” è dei dotti, come generalmente si ritiene, e “colono” è, invece, il contadino (o l‘abitante della colonia, il colonizzatore), come ognuno ben sa; “culto” è un servizio verso la divinità: l’atteggiamento collettivo proprio dell’uomo religioso. Questo collegamento semantico delle tre parole italiane (coltivare, abitare, venerare), riconducibili alla medesima radice, alla fine di questa nostra disquisizione dovrebbe educarci a superare i pregiudizi sociologici dovuti – per la parte che ci interessa – alla scarsa competenza della lingua (quanto a trasparenza). Fino a renderci conto di quella visione storica (o organizzazione sociale) di una società tripartita, fatta di dotti, clero e contadini, per riconoscerci – all’origine – tutti contadini in quanto abitanti (occupanti di terra, stanziali). Allora capiremmo il senso del detto: “Contadino, scarpe grosse e cervello fino”. Anche se ciò non sempre va a genio alle “civilizzate” altre due categorie: i dotti e il clero che vorrebbero distinguersi dai cafoni.
Nello stesso tempo, però, la nostra riflessione ci fa capire anche un altro dato di fatto: cioè che all’albore delle civiltà la classe sacerdotale, con l’anelito di penetrare il muro del mistero, si fa depositaria delle conoscenze acquisite che poi essa stessa custodisce attraverso un sistema di segni grafici, creando la scrittura.
Quindi “colo”, verbo latino, originariamente significa “coltivare” (e quindi: “abitare un luogo, creando storia e tradizioni”).
O che sia la terra l’oggetto del colere, o – per metafora – la casa (vedi: in-cola = inquilino), o la regione geografica (colonia, coloni); o che sia la persona stessa, la famiglia, il gruppo sociale, il “colere”, il “coltivare”, rappresenta sempre un’attività, sia pratica che ideale, essenziale alla vita umana, che a seconda dell’oggetto può essere: l’agricoltura (che come conoscenza e abilità tecnologica rappresenta e comprende tutta la cultura materiale), il gusto del bello (estetica) o il senso del giusto (morale); o, nella forma più alta, la riflessione sulla condizione umana e la conseguente opzione esistenziale (filosofia e religione). Solo questa costante attività del “coltivare e coltivarsi” procura la autodeterminazione razionale, cioè la libertà.
Questa – a parer mio – è la vera comprensione della parola “cultura”.
Luigi Casale