Violenza sulle donne e rieducazione della pena: ne parliamo con Michela Capone, giudice e scrittrice
Cosa accomuna Per sempre lasciami e La cella di Gaudì, due libri di cui di recente vi abbiamo parlato? Sicuramente il grande valore letterario ma soprattutto sociale: il primo racconta un’orribile storia vera di abusi sessuali su una minorenne e di violenze domestiche; il secondo racchiude dodici storie vere di detenuti raccontate da altrettanti scrittori. Oltre a questo e alla casa editrice (Arkadia), però, li accomuna un altro prezioso elemento: Michela Capone, autrice del primo libro e di uno dei racconti del secondo. Scrittrice, ma anche giudice presso il Tribunale dei minori di Cagliari e madre di tre figli: impossibile, per noi, non desiderare di conoscere meglio questa donna con la D maiuscola.
Mi riceve un sabato mattina in ufficio, dopo aver ultimato di redigere un documento urgente. «Oggi sono di turno» mi spiega. Qualche scambio di battute in cui precisa che quando rilascia interviste, lo fa per promuovere il suo libro in modo da «dare una mano a migliorare il sistema sociale», poi ci addentriamo negli argomenti che con lei desidero affrontare. Partiamo da Per sempre lasciami e la prima cosa che le chiedo – per curiosità forse più personale che giornalistica – è se, facendo il suo mestiere, ci si abitui mai a questi orrori. «Non ci si abitua mai. Sono tanti anni che faccio questo lavoro che mi porta a contatto con storie del genere, anche se questa è la peggiore con cui abbia mai avuto a che fare, forse perché sono legata a questa persona. La cosa più tragica di questo lavoro è che noi cerchiamo di fare giustizia, ma la giustizia è fatta da tante altre cose: la decisione del giudice è sempre parziale perché è a livello sociale che bisogna intervenire, quindi noi lavoriamo, purtroppo, con un sistema sociale molto povero in termini di assistenza alla famiglia e di aiuto alla persona. Questa è la cosa che più frustra il giudice, che gli dà più dolore: ti accorgi che è totalmente insufficiente. E poi è un lavoro difficile perché gli operatori della famiglia – tra cui anche il giudice – devono mantenere una certa terzietà, una certa freddezza, ed è molto facile, quando tu recepisci questo tipo di storie, “assorbire” il dolore delle persone, essere trascinati in questo marasma di disperazione. La cosa più complicata è questa. Per affrontare questi temi ci vuole molta preparazione. Io mi metto in discussione per la mia preparazione non solo giuridica ma anche umana e psicologica. Purtroppo, però, gli operatori e i giudici spesso non hanno una preparazione “psicoterapeutica” necessaria per affrontare in maniera congrua questo tipo di storie che, alla fine, per quanto riguarda i giudici, definisci con dei provvedimenti che ti rendi conto possono non essere sufficienti. Nel caso di questa ragazza [la protagonista della storia narrata in Per sempre lasciami, ndr] è stato proprio così. Lei è riuscita a denunciare il padre, a farlo condannare, ad ottenere una sentenza e ha perso tutto: la sua famiglia, gli affetti, la solidarietà della gente del suo paese … E si è ritrovata completamente sola, curata per tutto il processo per arrivare alla verità, ma forse il sistema istituzionale non ha colto completamente il suo dolore per cui si è ritrovata sola con il suo dolore dopo il provvedimento di condanna, non minimamente supportata nell’elaborare psicologicamente questo tipo di trauma. E questo cosa comporterà? Non solo che la sua vita sarà segnata, ma anche che lei, nel suo futuro, sicuramente sarà portata a ripetere certi modelli che, per ora, sta ripetendo in maniera molto pericolosa per se stessa. Sono i cosiddetti “processi di copia”, che derivano da queste storie e che intaccano le vittime, le quali, non rielaborando il trauma, sono portate a comportarsi o come chi le ha rese vittime oppure rivolgono contro se stesse il male che hanno ricevuto. Lei non è stata minimamente supportata dopo: la psicologa l’ha aiutata durante tutto il processo a dire la verità, non è stata supportata come persona (e se ne lamenta) e ora non è supportata dallo Stato – a parte materialmente – dal punto di vista psicologico, psicoterapeutico. È andata al consultorio – l’unico ente che potrebbe garantirle gratuitamente questo tipo di sostegno per la rielaborazione del trauma – ma qui non le viene garantito appieno il sostegno di cui ha bisogno. O uno se lo paga, o perisce perché il sistema pubblico non assicura questo tipo di aiuto.»
Qui non posso fare a meno di commentare che è questo dopo che spaventa nella storia di “Lucia” (così viene chiamata nel libro) e lei mi spiega che, in realtà, è anche il prima: «Ci sono stati errori istituzionali, dati dal fatto che, spesso, gli operatori dei servizi sociali e gli psicologi che operano nel “sistema giustizia” mirano troppo solo al fatto di far parlare queste persone, invece bisognerebbe, oltre a quello, prendersi cura della persona che deve parlare. Questo a lei è mancato» Domando, dunque, se il rapporto conflittuale, di ostilità e gratitudine, che questa ragazza ha con chi cerca di aiutarla – e che ben emerge nel libro – dipenda anche da questo. «Sì, dipende proprio da questo: lei non si è sentita accolta come persona sofferente.» “E come si fa ad aiutare chi non vuole essere aiutato? Il segreto è proprio farle capire che la si vuole aiutare perché ci si vuole prendere cura di lei, non per un secondo fine?” chiedo. «Sì, bisognerebbe supportare la vittima come persona innanzitutto, farsi carico del suo dolore. E, attraverso questo tipo di sostegno, instaurare una relazione di accoglienza empatica che la accoglie non soltanto per indurla a dire quello che è successo, ma anche a rielaborarla. Già dall’inizio lei è stata scioccata da questo modo di operare, che è molto frequente. È stata talmente scioccata che adesso, quando è andata in consultorio, ha rivissuto questo tipo di invadenza nella sua vita per un fine esterno alla sua cura e questo la condiziona. Purtroppo, non ha i soldi per permettersi ciò di cui ha bisogno, cioè una psicoterapia strutturata per consentirle la rielaborazione del trauma, che può avvenire soltanto attraverso la cosiddetta “demostrificazione” del padre e l’acquisizione da parte sua della consapevolezza che lui è comunque una persona debole. Questo è un elemento che dal libro emerge: il padre era stato a sua volta molto maltrattato. La cosa che dovrebbe completare questo quadro è il pentimento del padre. Lei ha capito, attraverso il processo, che il padre è un “mostro giustificato”, ma è mancato il successivo passaggio: lavorare su questa integrazione della rappresentazione del padre, che non è soltanto un cattivo. E il pentimento del padre – che è la cosa che, forse, l’aiuterebbe, accanto al supporto per rielaborare il trauma – non avverrà, perché normalmente queste persone, cioè gli abusanti, non arrivano al pentimento. La prima cosa che fanno davanti a quello che hanno fatto è l’evitamento, la negazione. E quando vengono messi in carcere non si lavora con l’abusante, il maltrattante, perché si penta e superi, appunto, la negazione, l’evitamento. Non viene aiutato affinché anche lui, attraverso un percorso psicoterapeutico, arrivi a quel punto che aiuterebbe lui a prendere consapevolezza dell’errore commesso e a non ripeterlo, ma anche la vittima che, recependo il pentimento di chi l’ha maltrattata, avrebbe un ristoro fondamentale. E bisogna prendersi carico anche della famiglia dell’abusante, del maltrattante. In questa storia, se sin dall’inizio si fosse agito così, sicuramente i danni sarebbero stati inferiori. E, comunque, ora che i danni sono stati fatti, non si agisce dopo la sentenza perché vengano in qualche modo contenuti. Ecco perché lei è vittima due volte. Bisognerebbe sempre aiutare le vittime ad essere meno vittime, sia durante i processi che dopo. Invece queste due categorie [vittima e abusante, ndr] vengono mantenute, con grande dolore della vittima, che si sente sempre più vittima, e con grande preoccupazione per l’abusante, che si porta dietro questa etichetta, probabilmente anche quando uscirà dal carcere.»
Errori nel prima, nel dopo e nel durante, soprattutto per quell’aiuto alla vittima finalizzato principalmente a ricostruire la “verità processuale” e non a prendersi cura di lei come persona. Anche se, almeno questi ultimi errori – mi spiega – sono «un po’ meno oggi, perché ci sono strumenti di sostegno alla vittima minore che allora non c’erano. Adesso si ha molta più cura della vittima minore, la si protegge di più, si cerca di evitare che abbia contatti diretti con il processo (attraverso l’incidente probatorio, che viene quasi sempre svolto), si cerca di proteggere l’audizione del minore testimone con delle accortezze processuali che cercano di accoglierne la debolezza … Però, ancora tanto deve essere fatto. Si lavora ancora un po’ male, nonostante gli strumenti siano aumentati, perché non si tiene abbastanza conto di quanto soffra una ragazzina a doversi schierare contro un padre, anche se le ha fatto del male, in un procedimento che pretende lealtà da queste persone deboli e le avviluppa in un conflitto con la figura genitoriale, con la famiglia (perché spesso c’è anche una madre connivente). Sono dei meccanismi sui quali si deve ancora lavorare tutti quanti, giudici e operatori, anche in una sorta di intervento corale. Siamo ancora indietro per questo.»
“E noi, come opinione pubblica incline ad emettere facili “sentenze”, abbiamo delle responsabilità nella maldestra gestione di questi traumi?” mi interrogo a voce alta, ricevendo da lei la risposta: «Beh, quando capitano queste storie, la prima cosa che ti viene in mente qual è? Gettatelo in una cella e buttate a mare la chiave. Ci scatta subito la catalogazione dei personaggi di queste storie: esistono i buoni ed esistono i cattivi. In questa storia [quella narrata in Per sempre lasciami, ndr] alla fine non capisci più chi sono i buoni e chi sono i cattivi, perché nella realtà i buoni e i cattivi al cento per cento non esistono. Questa storia lo dimostra. Quando l’ho ascoltata, inizialmente avevo quell’atteggiamento per cui esistono i buoni (lei) e i cattivi (lui), mentre alla fine questi giudizi sono morti e ho provato una pietà che ha “giustificato” la cattiveria. L’ha giustificata nel senso che mi ha posto il problema che bisogna lavorare anche sul “cattivo” per scoprire le ragioni della sua cattiveria, per correggerle in modo che, quando sarà fuori, non vi dia più spazio Si tratta di reati per i quali la pena non è elevatissima, quindi la possibilità che queste persone escano è concreta. E, anche se si comportano bene in carcere, se non si arriva a riordinare quello che c’è sotto la buona condotta carceraria, queste persone usciranno fuori e commetteranno altri crimini, perché non sono “guariti”. La cura dell’abusante nel carcere non c’è. A Milano si sta facendo questo lavoro con gli abusanti per farli arrivare al pentimento, renderli consapevoli dei propri errori e farli lavorare sulla base della loro cattiveria, ma non è una cosa diffusa. Ci vogliono soldi. La Regione Lombardia questi soldi li ha e li sta impiegando, perché comunque sono investimenti sociali. Questo non lo si capisce. Non si lavora sulle storie, con un approccio psicoterapeutico, che è quello che ci vuole. E che costa molto. Il sistema sanitario e sociale non ha gli strumenti, anche economici, per poter fronteggiare la cura sia delle vittime che dei carnefici. Così continua il ciclo della violenza: chi è vittima muore vittima e, a sua volta, potrebbe fare vittime, che possono essere o se stesso o altri.»
BELLISSIMO
BRAVA MARCELLA
non io, ma Michela Capone. E vedrai quanto è bella e interessante anche la seconda parte
Ottimo lavoro, Marcy!