Mondiali per trapiantati 2013: una bella esperienza, ma la nazionale italiana deve crescere – 2^ parte
di Marcella Onnis
Quella di Durban è stata un’esperienza perfetta, dunque? Sicuramente no, anche perché, come rimarca Stefano, i margini di miglioramento ci sono sempre e dovunque. Il primo ampio margine emerge soffermandosi sui risultati delle gare: l’Italia si è posizionata al 23° posto nel medagliere su un totale di circa 55 nazioni, portando a casa un solo oro (quello vinto da Roberto Cantoni nei 400 m stile libero), 7 medaglie d’argento e 7 di bronzo.
Ed è sempre Stefano, che è anche responsabile della Prometeo Aitf Sport, ad individuare la motivazione di questo scarno bottino: gli atleti italiani non hanno una struttura che li supporti adeguatamente. In altre nazioni, quali Irlanda e Ungheria, infatti, c’è un maggior sostegno. «Noi italiani – dice – siamo partiti in sordina: se non fosse stato per chi si è mosso a livello locale, nessuno avrebbe saputo niente. In Inghilterra, invece, dei WTG ne parla anche la BBC.» Poi mi fanno altri esempi: l’Olanda ha portato a Durban 120 atleti e gli Stati Uniti avevano addirittura due squadre. Perché queste differenze? Qui arriviamo al nodo cruciale, da cui dipende la risoluzione di tutti gli altri problemi: negli altri stati ci sono gli sponsor. La delegazione Svizzera, per esempio, è sponsorizzata da una fondazione. Queste trasferte costano, è piuttosto evidente, per cui senza finanziatori pubblici e privati – afferma il presidente della Prometeo Aitf – «c’è il rischio che ai WTG, così come ai Campionati europei per trapiantati e dializzati (ETDG), partecipino i più ricchi e non i più bravi». Non è un caso, infatti, che a Durban la partecipazione degli italiani sia stata meno nutrita che a Goteborg, mi fanno notare: molti atleti hanno dovuto rinunciare proprio per problemi di natura economica, non certo perché non all’altezza di affrontare questa competizione.
In Italia, purtroppo, c’è poca attenzione per le competizioni sportive che riguardano i trapiantati («Ci vorrebbe, da parte delle istituzioni e dei media, la stessa attenzione data alle competizioni degli atleti con disabilità» afferma Pino). E c’è, purtroppo, poca consapevolezza, persino da parte di alcune associazioni nazionali del settore, dell’importanza strategica di tali eventi per l’attività di sensibilizzazione sulla donazione degli organi e di informazione sui trapianti. Se se ne cogliesse questa grande potenzialità, allora si potrebbe avere il sostegno economico degli enti pubblici e anche di finanziatori privati. D’accordo, ma come dovrebbero essere utilizzate? Anche su questo punto i miei interlocutori hanno le idee chiare: strutturare la nazionale azzurra (eventualmente affidandone la guida ad un’associazione super partes quale Forum Sport Italia) e creare un gruppo coeso che abbia a disposizione uno staff di professionisti (compresi psicologo, massaggiatore e nutrizionista), che possa utilizzare attrezzature idonee, che effettui dei ritiri in vista delle gare, come fanno, ad esempio, gli inglesi, che abbia una sua divisa… Già, anche la divisa è una necessità, perché in queste competizioni internazionali la maglia è un simbolo identitario: gli atleti partecipano tutti come rappresentanti dell’Italia e come tali devono essere tutti immediatamente riconoscibili. «A Durban, noi ciclisti italiani eravamo 10 e avevamo 3 maglie diverse» racconta contrariato Stefano, ma questa è solo una delle tante rilevanti differenze che lui, Marina e Vladimiro hanno notato rispetto ad altre delegazioni.
Per cambiare le cose, però, occorre creare un circolo virtuoso perché i grossi sponsor arrivano quando si è in grado di offrire non solo risultati ma anche visibilità – come fa notare Stefano – e sarebbe quindi necessario che la nazionale non solo fosse allenata con professionalità e competenza ma anche che le fosse assicurata l’attenzione dei media. Obiettivi, questi, che richiedono la creazione di una vera squadra, guidata da un team manager. Anzi, possibilmente dovrebbe essere individuato un responsabile (competente) per ogni disciplina, alza il tiro Stefano. «Perché siamo atleti e rappresentiamo l’Italia! Partecipare è importante ma bisogna puntare al miglior risultato possibile. Perché l’agonismo ce l’hanno tutti.»
Quindi ci sono speranze che la situazione economica e organizzativa migliori? Mi dà una risposta tiepidamente ottimista: «Io ho colto la volontà dell’Aned [che ha guidato la delegazione italiana a Durban, ndr] di cambiare le cose, sia a livello di organizzazione che di singole persone, poi i frutti si vedranno.»
E i buoni frutti sarebbero molto preziosi perché in ballo c’è qualcosa di più nobile del pur rispettabile patrio orgoglio: «Il ritorno alla vita – prosegue il ciclista – per me significa che tutto può essere rifatto come lo facevi prima e anche per lo sport agonistico vale lo stesso. Dovremo puntare ad arrivare primi così come cerchiamo di arrivare primi ai controlli al day hospital [perlomeno così fanno i trapiantati coscienziosi]. Noi siamo un “investimento”[la parola è brutale e lui esita ad usarla, ma tutti concordiamo che sia quella che rende meglio il concetto] per i Centri trapianti perché ci si augura sempre che un trapianto duri il più a lungo possibile. E questo risultato dipende anche dallo stato mentale. Il traguardo è proprio quello che Marina sente con senso di colpa: non sentirsi più trapiantati. Non dobbiamo sentirci come dei “poverini” che devono accontentarsi di modesti risultati.» Non solo, spiega: lo sport è utile prima e dopo il trapianto, perché aiuta a rispondere meglio all’intervento e, dopo di questo, a mantenere (o, in certi casi, acquistare) una buona qualità di vita. Non a caso, sta partecipando ad alcuni studi per stimare gli effetti benefici dell’attività sportiva sui trapiantati anche in rapporto alle terapie farmacologiche. Perché, come dice il dr Stefano Dedola, opportunamente citato da Pino, «il miglior immunosoppressore è l’allenamento.» «L’importante è farlo e farlo regolarmente» precisa Stefano.
Il presidente della Prometeo Aitf rimarca, infine, che avere 3 sardi su una delegazione di 20 atleti sono un grande risultato per l’Isola, che è una piccola realtà nel mondo dei trapianti come in quello dello sport.
L’anno prossimo si disputeranno gli Europei a Cracovia, in Polonia, e nel 2015 si svolgeranno i WTG a Mar del Plata, in Argentina: l’augurio è dunque che la lista di partecipanti sia lunga (includendo naturalmente Atzori, Caredda e Cotti) e che la delegazione italiana si presenti meglio organizzata e sì, anche più competitiva. Perché, come disse il mitico Rino Gattuso in un’intervista rilasciata dopo la vittoria dell’Italia ai Mondiali del 2006, «solo gli inglesi festeggiano il secondo posto». E noi inglesi non siamo.
Le foto ci sono state gentilmente fornite da Vladimiro Atzori e da Stefano e Cristina Caredda.
Nella foto in basso, da sinistra a destra, gli atleti sardi Caredda, Cotti e Atzori.