“The King of Limbs”, i Radiohead si arrendono al fantasma del minimalismo
Devono essere rimasti traumatizzati da quanto accadde nel 2003, i Radiohead: a marzo di quell’anno, a pochi giorni dalla pubblicazione della track-list del loro album Hail To The Thief, l’intero lavoro venne diffuso illegalmente in rete, con brani non ancora definiti e mixati dalla band. Forse è per questo che il successivo In Rainbows e l’odierno The King of Limbs, autoprodotti, sono stati lanciati a sorpresa, in download gratuito e senza interviste promozionali.
Difficile, quindi, raccogliere dichiarazioni e impressioni della band di Oxford per capire, ad esempio, se le 8 tracce, in poco più di mezz’ora di durata dell’album, rappresentino la scelta di venire incontro a un ascoltatore medio che oggi ha ritmi sempre più liquidi e sincopati, e magari ascolta musica tra uno spostamento e l’altro, o mentre compie altre 3-4 attività.
Ascoltatore che dovrà comunque prestare a The King Of Limbs la dovuta attenzione, se vorrà comprenderlo e amarlo al pari dei lavori precedenti, poiché il disco è sfuggente e minimale, apparentemente screziato e irregolare nel ritmo, eppure ben strutturato tematicamente.
L’introduttiva Bloom è un ramificato e asincrono rampicante di campionamenti intorno alla voce elettronicamente profonda di Thom Yorke, che enuncia un testo vagamente profetico. È un inizio che può risultare indigesto per il suo incedere fitto e ossessivo, con inserti quasi New Orleans che riscaldano, ma non salvano.
Fredde e precise sono anche le percussioni di Morning Mrs Magpie, con un tappeto sonoro più tagliente e minaccioso di quello su cui si adagia la successiva Little By Little. Qui Yorke si fa più incisivo e cattivo sia nel canto che nei significati (Poco a Poco, con le buone o le cattive / Sono un tale provocatore / E tu sei una tale flirtatrice / Una volta sono rimasto ferito / Sei stata fin troppo nella mia vita), e la presenza più netta e scolpita della chitarra regala il primo alito di vera umanità. Little By Little è una traccia cruciale nell’economia di The King Of Limbs: chiude il trittico minimalista dei primi brani e sa di punto di partenza per le successive strade sonore del disco, esplicitando il tema dell’ostilità verso una persona con la quale si è coinvolti. Inoltre, il bridge del brano chiarisce definitivamente quanto questo lavoro sia influenzato musicalmente da The Eraser, il lavoro solista di Yorke, del 2005.
Saltate pure l’instrumental Feral, se lo volete, poichè troppo deforme è il beat e troppo breve la trama avvolgente dei sintetizzatori. Tuffatevi, piuttosto, e senza indugi, in Lotus Flower: un’opera di sound design tridimensionale, con un incipit in cui i suoni, partendo da sfondi e sottolivelli remoti, salgono in primo piano, trasformandosi in melodia portante. Effetti sirena, echi dub-step e organi lontani per una scultura sonora su cui Yorke adagia un testo di trasbordante classe, forse una surreale storia di tradimento e passione (Lentamente ci apriamo come fiori di loto / E voglio solamente la luna su un bastone / Ballare intorno al fosso / Solo per capire di cosa si tratta / Non posso perdere il vizio / Solo per alimentare la tua testa che si gonfia in fretta / Ascolta il tuo cuore). Se proprio un difetto lo si vuole trovare, si potrebbe notare che le linee di basso plagiano This Mess We’re In cantata da Thom Yorke con P.J. Harvey.
Si giunge così a Codex, capolavoro di piano e folktronica. Yorke scrive un testo che regge benissimo il confronto con Nightswimming dei R.E.M, se non fosse che, in una sola frase, Codex tradisce intenzioni ancora più ampie ed esistenziali di quelle di Michael Stipe.
Give Up The Ghost ha un incedere quasi country e la voce rotta e malregistrata. I controcanti ossessivi e loopati rivelano che, liricamente, The King of Limbs ha compiuto la sua metamorfosi, passando dalle minacce e il risentimento del trittico iniziale alla vulnerabilità e voglia di riconciliazione delle ultime tracce.
The King of Limbs è quindi un lavoro che salva il posizionamento dei Radiohead lungo le direttrici dell’innovazione e della sperimentazione, una presa di distanza dalle melodie ben definite di In Rainbows. Un solco minimalista della loro carriera, musicalmente e liricamente, anche se la conclusiva Separator, più elaborata e luminosa, lascia intravedere all’orizzonte un volume II del disco, magari più ricco e composito.
Andrea Anastasi